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Scenari 2007

Medio Oriente fra caos e iniziative diplomatiche

3 Gen 2007 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

Il 2006 è stato un anno di estreme tensioni in Medio Oriente – l’emergere di un governo islamista in Palestina, l’evidente precipitare dell’Iraq in una crudele guerra civile, il conflitto fra Israele e il Partito di Dio nel sud del Libano, il ritorno dei talebani in Afghanistan, il riemergere di un nazionalismo aggressivo a Teheran. L’anno si chiude con l’esecuzione di Saddam Hussein e il sopravvenire di un’ennesima grave crisi nel Corno d’Africa, crisi radicata ovviamente in questa regione africana, ma strettamente collegata al tumulto che percuote il Medio Oriente ormai dall’inizio del decennio. In queste crisi l’Occidente è pesantemente coinvolto, nella regione stessa e, per via dell’immigrazione, sul suo stesso territorio. Perciò, parlare del destino del Medio Oriente oggi significa parlare anche di quello dell’Occidente. Come continueranno a svolgersi nel 2007 tutti questi eventi?

Gli Usa via dall’Iraq
Il 2007 sarà marcato dalla ritirata americana dall’Iraq e da come questa ritirata avverrà. Il saldo dell’operazione avviata nel 2003 con l’invasione dell’Iraq è oggi difficilmente definibile in termini di vittoria o sconfitta. Di sicuro, però, non è una vittoria e s’impone la necessità di un drammatico ripiego e della sua gestione. A Washington è di questo che si sta discutendo. Il proposito condiviso è quello di un cambio della guardia fra forze americane e irachene in un quadro politico e costituzionale il più coeso possibile. Come garantire questo quadro è però il vero problema.

L’Amministrazione non sembra avere una specifica strategia in proposito e anche le decisioni quotidiane continuano a mostrare una singolare mancanza di perspicacia. Così, la decisione dell’Amministrazione di consegnare Saddam Hussein alle autorità irachene perché eseguissero la sua condanna a morte appare, nelle attuali condizioni dell’Iraq, inevitabilmente destinata a rientrare nella logica dello scontro civile in atto, quindi ad apparire o un atto di ostilità verso i sunniti o una dimostrazione della forza dei curdi e degli sciiti. Più appropriata sarebbe stata una sospensione della consegna del condannato.

A fronte dell’inerzia del Presidente, la classe politica, nel quadro della commissione bipartisan Baker-Hamilton, ha più sensatamente proposto di negoziare la ritirata dall’Iraq con i veri protagonisti del conflitto, cioè i paesi vicini. Tutti i vicini hanno interessi nazionali e politici fortissimi nel conflitto e sono perciò interessati a trattare. Dal negoziato potrebbe uscire un nuovo assetto regionale stabile che permetterebbe agli USA di andarsene senza lasciarsi dietro il caos e conservando una qualche influenza.

La commissione Baker-Hamilton ha anche sottolineato la connessione che esiste fra i vari conflitti regionali in corso, connessione che è sempre esistita ma che negli ultimi anni è diventata – per usare il suo aggettivo – inestricabile. L’inconcludente intervento in Iraq ha allargato a macchia d’olio l’anti-occidentalismo della regione, che il governo radicale di Teheran ora cavalca saldando forze anche fra loro eterogenee. La regione è oggi spaccata da uno scontro che viene dipinto fra sciiti e sanniti, ma che avviene in realtà fra anti e filo-occidentali, radicali e moderati. In vista di questa saldatura, la commissione Baker-Hamilton sottolinea la necessità che gli USA tornino ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese e dei suoi dintorni, la Siria e il Libano.

Opzioni alternative
Due scenari appaiono perciò possibili. Il 2007 potrebbe vedere un rafforzamento della presenza militare americana oppure un confuso e disastroso ritiro dall’Iraq. Troppo tardi per inseguire una vittoria ormai mancata. Questo primo scenario in ogni caso indebolirebbe Usa e paesi occidentali. Potrebbero, in un secondo scenario, farsi strada strategie d’iniziativa politica e diplomatica, come quella suggerita da Baker e Hamilton, che rappresentano umori trasversali di buona parte della classe politica americana e una loro saldatura con gli europei e gli altri alleati occidentali.

Occorre però sottolineare che, mentre l’orientamento a negoziare sembra quello giusto, esso costituisce il riconoscimento che la vittoria è mancata, che è necessario ripiegare e che conviene limitare i danni di tale ripiego. I negoziati non sono un surrogato della vittoria ma la via a dei compromessi. Perciò, un costo è comunque da mettere in conto. In ogni caso, i compromessi necessari non scontano certo un risultato positivo né una facile attuazione.

È giusto aprire il dialogo con l’Iran, ma è assai difficile pensare – nelle condizioni di debolezza in cui gli Usa e l’Occidente si trovano a farlo – che Teheran contribuirebbe ad assicurare un qualche interesse occidentale nella regione senza contropartita. Similmente, gli interessi del regime siriano sono più complessi di quelli che appaiono nelle correnti cronache diplomatiche occidentali: la buona volontà a trattare del regime di Damasco è oggi dettata dall’urgenza di ricevere una garanzia di stabilità nel quadro dell’inchiesta Hariri. Appena più in là, è ingenuo pensare che, ricevendo indietro il Golan, Damasco tiri i remi in barca nel Libano e nella regione. La sopravvivenza del regime è anche legata alla sua proiezione regionale e gli equilibri interni siriani sono assai più delicati di quelli libici.

Il ruolo di Israele
In tutto questo, occorre fare i conti anche con Israele. Nel paese c’è una forte corrente favorevole a negoziare con la Siria, basata in genere sulla valutazione che ciò rafforzerebbe i palestinesi secolari e moderati e renderebbe possibile raggiungere un compromesso. Il richiamo di Baker e Hamilton sul conflitto israelo-palestinese ha suscitato invece un quasi unanime rigetto, essendo visto come un’ipoteca coercitiva sulle prospettive di risoluzione del conflitto più che come un fattore volto a rinsaldare la coalizione degli interessi anti-iraniani e filo-occidentali. La disponibilità israeliana a diventare un fattore positivo dell’equazione diplomatica è perciò condizionata a garanzie sull’esito di una arrangiamento coi palestinesi. La novità è che questa disponibilità rispunta, dopo l’eclissi del periodo sharoniano, ma questa novità non rende più facile il compito dell’eventuale iniziativa diplomatica occidentale.

Dunque, nel 2007 potrebbe esserci uno sviluppo diplomatico stabilizzatore, ma il suo successo non è certo scontato: si tratta quasi della quadratura di un cerchio. Due elementi occorrerà tenere presenti nell’affrontare un’eventuale iniziativa diplomatica di grande respiro come quella che la commissione Baker-Hamilton e molti governi europei suggeriscono. In primo luogo, sarà necessario negoziare senza dare impressioni di debolezza o rassegnazione.

L’uscita dall’Iraq deve essere costruita come la trasformazione dell’occupazione in una alleanza di sicurezza. Una più forte partecipazione europea a questa trasformazione ne accrescerebbe la credibilità. Allo stesso modo, non deve essere abbassata la guardia in sede di Consiglio di Sicurezza. In secondo luogo, come sottolinea il rapporto Baker-Hamilton, gli Usa devono agire di concerto con gli alleati, in particolare quelli occidentali. Questo sforzo comune sarebbe utile in Iraq, ma soprattutto nel Levante, dove è necessario agire sul conflitto arabo-isrealiano e dove le circostanze danno agli europei, nei confronti di arabi e israeliani, nuove e proficue possibilità di azione e mediazione.