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America Latina

Le seduzioni del nazionalpopulismo

11 Gen 2007 - Livio Caputo - Livio Caputo

Erano anni che Hugo Chavez, l’ex para diventato presidente del Venezuela nel 1998 e confermato in carica per la seconda volta nel novembre scorso con 23 punti di vantaggio sul suo avversario conservatore Rosales, predicava l’instaurazione di un “socialismo bolivariano”, edizione riveduta e corretta per l’America latina del socialismo reale. Ciò nonostante, quando nel suo discorso inaugurale dell’8 gennaio il vulcanico leader ha annunciato la prossima nazionalizzazione dell’energia elettrica e delle telecomunicazioni, oggi controllate da società statunitensi, è stato un po’ un fulmine a ciel sereno.

Retorica anti-americana
Fino a quel momento infatti Chavez, nonostante la sua sempre più caustica retorica antiamericana, si era limitato ad aumentare la partecipazione della Compagnia di Stato nelle operazioni delle compagnie petrolifere straniere che gli garantiscono una produzione di 3 milioni di barili al giorno, senza interferire con un’economia che obbedisce tuttora alle regole del mercato. Ora, imbaldanzito dal successo elettorale, ha evidentemente deciso di passare alla fase due che, stando alle sue dichiarazioni, comprenderà anche il passaggio della Banca centrale sotto l’autorità governativa, ulteriori interventi nel settore petrolifero e una legge – sicura di passare in un Parlamento in cui il presidente controlla, per il boicottaggio elettorale delle opposizioni, tutti i 167 deputati – che gli conferirà il potere di procedere alle nazionalizzazioni per decreto. Non è chiaro se Chavez prevede di indennizzare le società espropriate o se, sfidando le inevitabili ritorsioni, procederà a una nazionalizzazione alla sovietica.

La reazione dei mercati è stata immediata: la Borsa di Caracas ha perso il 15% e il bolivar si è svalutato del 17 per cento. Ma, più ancora delle conseguenze economiche, a destare preoccupazione sono le possibili ricadute politiche di questa fuga in avanti. Con la “sparata” dell’8 gennaio, Chavez ha infatti cercato di ribadire la sua leadership del movimento nazionalpopulista, antiliberista e antiamericano che, sia pure tra alti e bassi, si sta diffondendo in America Latina, resuscitando antichi fantasmi.

È concepibile – ci si chiede a Washington – che quel comunismo che con tanta fatica è stato sconfitto in Europa e perfino in Cina rinasca – sia pure con aspetti abbastanza diversi – in un’America Latina dove la presenza di un establishment quasi feudale accanto a masse di diseredati spesso di origine india, le grandi differenze tra ricchi e poveri e la mancanza di una classe politica qualificata sembrano offrire un adatto brodo di cultura? È verosimile che, dopo la promettente svolta verso la democrazia liberale degli anni Novanta, il subcontinente torni a scivolare verso il predominio di regimi che, pur essendosi affermati attraverso le urne, tendono poi ad assumere connotati dittatoriali? Come è possibile che la lezione di Cuba, ridotta alla miseria dal regime castrista, non sia servita a nulla e un Fidel ormai fuori gioco abbia ancora tanti ammiratori?

Minaccia da ridimensionare
La minaccia indubbiamente esiste, anche se il quadro è meno inquietante di quanto possa apparire a prima vista. Nonostante l’uso spregiudicato dei petrodollari, la campagna di Chavez per creare un vasto fronte antiamericano e assumere a tutti gli effetti la successione di Castro non ha finora avuto il successo che egli sperava. Al momento, soltanto due Paesi si sono schierati senza riserve dalla sua parte: la Bolivia, dove l’elezione alla presidenza dell’indio Evo Morales ha portato a una svolta radicale, compresa la nazionalizzazione delle risorse di idrocarburi e l’adozione della stessa retorica antiyankee in voga a Caracas, e l’Ecuador, dove la vittoria a sorpresa dell’economista marxista Rafael Correa sembra preludere a uno sviluppo similare.

Anche le elezioni in Nicaragua hanno portato al potere un esponente della sinistra, quello stesso Daniel Ortega Saavedra che aveva guidato la rivoluzione sandinista degli anni Ottanta, ma l’uomo sembra avere messo molta acqua nel suo vino ed è comunque condizionato dal fatto di avere ottenuto meno del 40% dei suffragi. Negli altri Paesi in cui gli alleati di Chavez speravano di conquistare il potere nel 2006, hanno invece prevalso i moderati: in Messico Rafael Calderon, uomo vicino agli Stati Uniti, ha sconfitto di misura Andres Lopez Obrador, e in Perù il socialdemocratico Garcia ha avuto ragione più facilmente del previsto di Ollanta Humala, un ex ufficiale di sangue indio che sperava di emulare l’impresa di Morales cavalcando il malcontento delle popolazioni andine.

Altri importanti Paesi dell’America Latina sono governati da uomini di sinistra, animati da una ostilità di fondo nei confronti dell’America di Bush, ma poco disposti ad aggregarsi al carro di Chavez. Nonostante le sue origini marxiste, il presidente brasiliano Lula da Silva, rieletto alcuni mesi fa per un secondo mandato, si è rivelato un leader prudente, poco ideologico e più interessato allo sviluppo dell’economia che alle crociate internazionali. Più disponibile a giocare la partita anti-Washington è apparso l’argentino Nestor Kirchner, l’uomo che ha rinnegato il debito estero infliggendo un enorme danno ai nostri risparmiatori e che ha costruito la sua popolarità su uno sciovinismo economico che ricorda il peggiore peronismo: ma, come il suo collega e vicino uruguaiano Tabaré Vazquez, arrivato al potere con il sostegno degli ex-Tupamaros, evita prese di posizione che possano ritorcersi contro di lui e bada soprattutto a preparare la sua rielezione. Quanto a Michelle Bachelet, la prima donna arrivata alla presidenza del Cile, si è mossa finora con grande cautela: nonostante la sua matrice di sinistra, ha evitato di interferire con una economia cilena che continua a beneficiare delle riforme liberiste introdotte durante la dittatura di Pinochet e ha tenuto Chavez e i suoi alleati a debita distanza.

Chi teme (o spera) che, sotto la spinta di un presidente venezuelano che si è impegnato – sono parole sue – “a salvare il mondo dalla voracità dell’imperialismo yankee”, un’onda rossa possa sommergere l’intera America Latina esagera probabilmente la presa che un uomo come Chavez può avere sul continente. È vero che, sotto la sua spinta, Bush ha visto miseramente fallire il suo progetto per una zona di libero scambio dall’Alaska a Capo Horn e, a sud del Canale di Panama, può ormai contare su due soli alleati, il colombiano Uribe e il paraguayano Frutos. Ma molti trovano il suo estremismo inaccettabile e, se continuerà la discesa dei prezzi del greggio, non disporrà più nella misura attuale di quella che è stata finora la sua arma migliore: il danaro.