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Turchia

I rischi della non-Europa

4 Dic 2006 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

Si è parlato molto della Turchia nelle ultime settimane, essenzialmente in relazione alla visita del Pontefice romano e dei rapporti con l’Islam. In realtà, della Turchia converrebbe parlare soprattutto in relazione alla sicurezza europea e alla grave crisi che tormenta le regioni mediorientali. La questione dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea non è basata sui rapporti fra le religioni ma è innanzitutto un problema di sicurezza dell’Europa. A questo proposito, la Commissione ha appena reso nota una sua valutazione negativa discendente dai rapporti con Cipro.

Preclusione all’accesso
Nell’emettere un segnale negativo verso l’accessione della Turchia, la Commissione ha recepito l’atteggiamento che complessivamente circola nella maggior parte dell’Unione Europea e rischia di prevalere. Se è troppo presto per dire che l’ingresso della Turchia nell’Unione è precluso, è in questa direzione, tuttavia, che le cose si stanno muovendo. La preclusione europea congiura con gli sviluppi in Iraq nel favorire il riaffermarsi del vetero-nazionalismo kemalista e nel soffocare, per contro, la coalizione di liberali e religiosi che negli ultimi anni, col governo Erdoğan, ha portato avanti l’adesione all’Europa non per il vacuo prestigio della nazione turca, ma per porre le fondamenta di un regime politico democratico nel paese. Se i fattori che favoriscono la recrudescenza nazionalista turca dovessero prevalere, l’Unione non solo ne sarebbe in parte più o meno rilevante responsabile ma, a conti fatti, la sua sicurezza ne subirebbe conseguenze non vantaggiose.

Sin dalla fine della guerra del Golfo e dalla decisione anglo-americana di fare del Curdistan nord-iracheno una zona protetta e di fatto autonoma rispetto al governo centrale di Baghdad, gli storici timori della Turchia per l’emergere di un’entità curda e l’attrazione che ciò potrebbe esercitare verso i suoi curdi si sono moltiplicate. La forte tendenza alla frammentazione dell’Iraq, che la caduta di Saddam Hussein ha comportato, ha poi reso più concreti e vicini tali timori. La Turchia teme il rafforzamento di un’entità curda indipendente o anche solo autonoma nel Curdistan iracheno, innanzitutto perché questo favorisce le operazioni militari e il terrorismo del Partito Curdo dei Lavoratori (Pkk) e ne accresce l’influenza politica nel sud-est curdo della Turchia.

L’eventuale emergere di uno Stato curdo indipendente (o di uno stato fortemente autonomo inserito in una debole confederazione irachena) è, inoltre, considerato un fattore politico di grave turbativa per diversi motivi:
(a) questo Stato, come già accennato, eserciterebbe un’attrazione verso la diaspora curda in Turchia e negli altri Stati vicini della regione (Iran e Siria) e sarebbe quindi un fattore di instabilità nazionale e regionale;
(b) opprimerebbe i turcomanni presenti nel Curdistan (cioè i turchi etnici restati nel paese dopo il ritiro degli ottomani) e, nella migliore delle ipotesi, ne farebbe una minoranza, mettendo la Turchia dinnanzi al dovere di difenderli;
(c) potrebbe arrivare a mettere in questione l’assetto imposto nel 1926 dalla Lega delle Nazioni all’Iraq e alla Turchia (l’inclusione della ex provincia ottomana di Mosul, grosso modo l’attuale Curdidstan iracheno) e costringere la Turchia a intervenire per ripristinarlo o colmare comunque il vuoto.

Tra democrazia e nazionalismo
Si legge abbastanza facilmente nella filigrana di questi timori, l’emergere di una classica tendenza nazionalista. Questa tendenza non è certo nuova. Tuttavia, mentre fino all’aprirsi della crisi irachena, si trattava di una nazionalismo in difesa, i compiti che le nuove preoccupazioni turche prospettano – la difesa dei turchi etnici (una missione che in precedenza nessuno si era posto) e l’intervento diretto a garanzia dell’integrità irachena – delineano invece un nazionalismo più espansivo e aggressivo. Dove va la Turchia?

La visione di una Turchia divisa fra democratici proeuropei e nazionalisti antieuropei non risponde al vero. Nel partito religioso al governo e fra i liberali, le preoccupazioni appena ricordate hanno in effetti un’eco, anche se minore che presso i kemalisti. Se il vortice iracheno dovesse ancora avanzare e travolgere l’unità del paese, tutti ne sarebbero attratti, nazionalisti e non, gli uni avendo quello che si aspettano, gli altri trascinati ineluttabilmente in esso. La Turchia è su un crinale, fra un progetto democratico e un progetto nazionalista.

L’Unione Europea, tenendosi al largo della crisi irachena non può neppure lontanamente sperare di influenzarne il corso in modo da evitare che la frantumazione del paese faccia da levatrice al nazionalismo turco. Può però includere la Turchia nella sua sfera politica. Tuttavia, lasciando libero corso ai confusi sentimenti identitari che agitano gli europei (e che i Governi strumentalizzano), non funziona certo da magnete e, tantomeno, da levatrice della democrazia turca. Ques’ultima potrebbe perciò più facilmente scivolare nel conflitto iracheno, con la conseguenza di spingere le forze del nazionalismo e disperdere quelle della democrazia.

L’antidoto che l’Unione può provvedere a un nazionalismo turco lanciato sulle orme delle vestigia ottomane non può essere la soluzione della crisi irachena – che molto probabilmente si compirà senza che nessuno possa più evitarla – ma una forte mano tesa a includere la Turchia nella sfera democratica europea.

Conviene all’Unione che la Turchia sia intrappolata nella crisi irachena? Se la Turchia dovesse davvero accorrere a proteggere i turcomanni e interferire negli equilibri interni dell’Iraq, dapprima per garantirne l’integrità e, quando questa si sarà rivelata una chimera, per garantire con l’occupazione la propria sicurezza e quella dei turchi (dovunque essi siano), l’Unione si troverebbe un vicino nazionalista e aggressivo che aggraverebbe la crisi irachena (e potrebbe aprirne altre). Se il corso nazionalista turco venisse invece fermato in tempo, l’Unione avrebbe un vicino democratico e cooperativo, in grado anche di contribuire alla soluzione della crisi irachena.

L’instabilità e l’insicurezza dell’Unione si avvicinerebbero nel primo caso e si allontanerebbero nel secondo. Per ora, preoccupazioni del genere sembrano aliene ai dirigenti politici europei e, di riflesso, la Commissione emette pronunce più burocratiche che politiche. È augurabile che presto ci sia un’inversione di tendenza, perché l’implosione irachena sembra piuttosto approssimarsi che allontarsi e il tempo è perciò limitato.