Questa volta Bush può perdere
È assai probabile che nelle elezioni US di mid-term del 7 novembre i Democratici conquistino la maggioranza nella House of Representatives, ed è possibile, anche se non scontato, che divengano maggioranza anche al Senato, la camera del Congresso che rappresenta i 50 Stati dell’Unione.
Attualmente i 435 membri della Camera sono così distribuiti: 230 Repubblicani, 201 Democratici, 1 indipendente e 3 vacanti. E per i 100 seggi del Senato l’equilibrio è fin qui costituito da 55 Repubblicani, 44 Democratici e 1 indipendente. Si calcola perciò che per la maggioranza alla Camera i Democratici debbano conquistare 15 collegi in più degli attuali, e per il Senato debbano prevalere in 6 Stati in più sui 33 nei quali si vota.
Effetto Bush
I sondaggi indicano i Democratici in vantaggio, dagli 11 ai 18 punti, ma si tratta di dati nazionali. Nella ripartizione del consenso tra i collegi e gli Stati, il calcolo è più complicato, anche perché si prevede che in 4 Stati in cui si vota per il senatore, il vincitore supererà l’avversario di stretta misura.
Perché è probabile che si verificherà questo mutamento nel predominio politico al Congresso dai Repubblicani (che lo detengono dal 1994 in entrambi i rami del Congresso) ai Democratici (che avevano prevalentemente dominato nel ventennio precedente dal 1974 al 1994)?
Innanzitutto si deve considerare l’effetto di trascinamento in basso della Presidenza Bush che oggi raccoglie poco più di un terzo di consensi nell’elettorato americano. George W. Bush ha vinto con margine le elezioni presidenziali del 2004 perché aveva dato l’impressione di sapere rispondere in maniera efficace al terrorismo molto più dei Democratici.
In un primo tempo la carta vincente di Bush era stata la guerra al terrorismo intrapresa con la promessa di vincere rapidamente la partita a Baghdad. Ma, oggi, prevale la convinzione che in Iraq l’America sia in forte difficoltà, aggravata dall’altissimo costo umano e finanziario. Per cui è proprio tale delusione delle aspettative che ha invertito il favore nei confronti di Bush, al punto che molti candidati Repubblicani sono indotti a prendere le distanze dal Presidente per non essere travolti dal suo tramonto politico.
Conservatori in crisi
Più in generale è entrata in crisi quella cultura conservatrice che ha dominato nella società e nelle istituzioni dall’ascesa di Ronald Reagan alla presidenza nel 1980 fino alla seconda elezione di George W. Bush. La politica estera, che sembrava avere trovato con la svolta neoconservatrice nuovo vigore, ha invece dato, al momento, cattiva prova nel punto cruciale, l’Iraq.
Gli effetti della rivoluzione fiscale si sono ormai diluiti e non hanno più quell’impatto che avevano avuto in precedenza. A questo si deve aggiungere la serie degli scandali, da ultimo quello assai significativo del deputato pedofilo della Florida Mark Foley, nonché la mancanza di personalità capaci di esercitare un grosso richiamo per le elezioni presidenziali del 2008.
Infine è opportuno avanzare una considerazione su quello che è lo “spirito americano” di fronte al potere. Il sistema istituzionale statunitense è fondato sui divided powers, cioè sulla preferenza per istituzioni – Presidenza, Congresso, Stati, Corte suprema – che non siano nelle stesse mani politiche perché si possa attuare il sistema del chek and bilance. Contrariamente ai sistemi europei dove l’Esecutivo deve essere concorde con il Parlamento che lo esprime, negli Stati Uniti la regola è piuttosto l’inverso affinché meglio funzionino i controlli e bilanciamenti istituzionali.
Negli ultimi anni c’è stato, per così dire, il monocolore repubblicano in tutte le istituzioni: Presidenza, Congresso (Camera e Senato) e Corte Suprema. Questa è un’altra ragione per cui è probabile che l’omogeneità politica repubblicana, da tempo vigente in tutte le istituzioni americane, lasci il passo a un equilibrio più articolato tra Democratici e Repubblicani, secondo quella legge del pendolo che sembra essere una specie di misteriosa forza che innerva la democrazia americana.