L’occidente a tre mesi dal Libano
A circa tre mesi dalla fine della guerra di Israele con il Partito di Dio e il Libano, gli eventi corrono senza dare segno di essere ingabbiati in una qualche dinamica politica e diplomatica. In Libano, la guerra ha acuito la polarizzazione fra il blocco filo-occidentale e quello filo-siriano e iraniano: il Movimento del 14 marzo e la coalizione che fa capo al Partito di Dio. Dietro questo ascendere della tensione in Libano c’è sicuramente l’inquietudine siriana per l’inchiesta sull’assassinio del presidente Hariri. Nel contempo, il governo israeliano continua la sua vana pressione militare su Gaza in risposta all’altrettanto vana sfida di chi lancia i missili Qassam e detiene il caporale Shalit. Si rafforza il circolo vizioso fra l’irrigidimento politico di Gerusalemme e lo sfarinamento politico dei palestinesi, sicché sempre più problematica appare qualsivoglia prospettiva negoziale – e anche solo esistenziale.
Il risultato di queste tendenze, in una regione in cui ormai tutto si tiene, è una forte ansia dei regimi moderati, un’esasperazione trasversale delle opinioni pubbliche, e il rafforzarsi della potenza regionale dell’Iran, con le proiezioni e le tracimazioni in Occidente che ben si conoscono.
Lavorio diplomatico
A fronte di questi sviluppi si sente un grande ronzio diplomatico ma non è chiaro se la comunità internazionale stia davvero approfittando dello spiraglio di opportunità che gli eventi dell’estate sembravano aver aperto. Il problema strategico sta nel conciliare le singole crisi con il loro carattere accentuatamente comprensivo e regionale. Le singole crisi sono tutte molto gravi e legate strettamente l’una all’altra nella regione. Come affrontare un sistema di crisi così complesso? Si deve trovare il bandolo della matassa e procedere crisi per crisi sullo sfondo di un disegno complessivo, oppure si deve creare uno strumento diplomatico comprensivo – una conferenza internazionale – per giocare quanto più possibile a carte scoperte?
In Europa, i Governi sembrano propendere per la prima strategia. Un diplomatico tedesco ha sottolineato la necessità di formulare una “goal map”, quindi una lista di obiettivi, certamente legati fra loro da interazioni e priorità; una lista da ordinare in un progetto, unico e flessibile al tempo stesso. Alcuni Governi, come quello italiano, indicano esplicitamente e pressantemente la priorità del conflitto fra Israele e i palestinesi. Altri la necessità di reintegrare la Siria onde consentirle di togliersi dal micidiale arrocco in cui oggi si trova sullo scacchiere regionale. Non appena si riflette a queste priorità, ci si avvede tuttavia che, almeno all’inizio, non è possibile individuare un bandolo della matassa. Occorrerà lavorare singolarmente e di conserva sui diversi “goal”, avendo però in mente una sequenza che, a un certo momento, consenta di ricomporre la fondamentale unità del quadro.
L’indicazione della priorità palestinese può non essere immediatamente operativa rispetto alle crisi regionali contigue – quelle del Vicino Oriente. Essa però indica una priorità operativa nel più ampio contesto del Medio Oriente, vale a dire che lo sforzo deve essere dapprima concentrato sul Vicino Oriente, sul conflitto arabo-israeliano, per volgersi all’Iraq in un secondo tempo. Una soluzione delle crisi del Vicino Oriente taglierebbe l’erba sotto i piedi dell’offensiva dell’Iran e dei suoi alleati, rinsalderebbe l’alleanza occidentale con gli arabi moderati e, in definitiva, consentirebbe, di affrontare la questione del Golfo da un terremo migliore. La Palestina e, in generale, il grumo di crisi che la circonda ha per l’Europa non solo un significato di sicurezza in termini urgentemente difensivi, ma anche un significato politico e diplomatico di più ampia iniziativa nei confronti della regione nel suo complesso.
La questione siriana
Nel Vicino Oriente la crisi siriana e quella palestinese, pur legate fra loro in vari modi, appaiono due variabili semindipendenti, mentre quella libanese è decisamente e direttamente influenzata dalle prime due. Questo offre un primo spunto sequenziale. Che cosa si pensa debba farsi in Europa, ammesso che siano queste le due crisi da cui iniziare? Sulla Siria, è evidente che le condizioni di normalizzazione sono il recupero del Golan e la concessione agli Assad dello stesso salvacondotto “regime saving” che è stato concesso ai Gheddafi. La questione del tribunale ONU per l’assassinio del presidente Hariri è parte di questo salvacondotto. Più in generale, è chiaro che Damasco intende avere garanzie sulla permanenza del regime e un trattamento pienamente westfaliano sui suoi affari interni. In Israele si sono levate voci favorevoli alla ripresa del negoziato sul Golan. Su questi temi la diplomazia europea potrebbe provare a lavorare, anche se dovrà per questo mettere un po’ da parte il suo bagaglio ideologico e ideale.
Sulla Palestina, è abbastanza unanime la sensazione che non ci sia più nulla da processare e che, sulla scorta dei parametri di Clinton – nessuna piattaforma migliore essendo nel frattempo emersa – si debbano sollecitare le due parti a prendere una decisione sullo status finale, con l’intesa di negoziare i dettagli dopo. Secondo alcuni più specifici suggerimenti, il Quartetto dovrebbe indicare uno status finale e invitare le due parti a esprimersi su di esso, gli israeliani attraverso il loro Governo, i palestinesi attraverso un referendum.
Rispetto a questa famiglia di ipotesi e progetti, viene sottolineata da più parti in Europa la necessità di ricondurre tutte le varie crisi con le loro interconnessioni a un quadro diplomatico unico. Il riferimento è a una conferenza diplomatica internazionale, che potrebbe riprendere il formato di quella di Madrid del 1991 (alcuni, specialmente in Israele, hanno sostenuto la riconvocazione di quella stessa conferenza) e riproporre in aggiunta alcuni moduli della Csce. L’idea è stata sostenuta dall’International Crisis Group.
Un recente seminario organizzato dallo IAI e dall’IPALMO ha discusso questa ipotesi con un gruppo di esperti e funzionari provenienti dall’Europa, dagli Usa e dal Medio Oriente. Il seminario ha convenuto sulla necessità di un approccio comprensivo, ma la maggior parte dei partecipanti ha anche sottolineato la necessità di lavorare, preliminarmente alla conferenza, sul merito delle crisi onde evitare che il peso della loro serietà comprometta le possibilità del suo successo. Una volta messe sui binari almeno le questioni più rilevanti, una conferenza potrebbe ben essere lo strumento da impiegare per chiudere la partita e porre le basi dei necessari supporti funzionali ed economici a livello della regione.
L’imprescindibile ruolo degli Usa
Tutte questi progetti debbono, tuttavia, misurarsi con un ruolo Usa nella regione che resta imprescindibile. L’Iraq ha messo gli Usa in una condizione di debolezza. Gli europei hanno molto opportunamente riempito, nella crisi libanese, il vuoto americano. Grazie al loro coinvolgimento hanno acquisito voce in capitolo, nondimeno tutti i vari progetti che sono stati appena richiamati in questo articolo possono certo essere avviati dagli europei, ma per essere portati a compimento hanno bisogno degli Usa. La posizione mediorientale degli europei nel quadro transatlantico è oggi rafforzata dalla sua iniziativa, diversamente dalla debolezza e dalla remissività che l’ha costantemente caratterizzata nel passato. Ma questo non significa che può prescindere nella sua attuazione da una sostanziale cooperazione con l’altra sponda dell’Atlantico. Mentre in Europa ci sono questi fermenti di azione, che cosa si pensa negli Stati Uniti?
Negli Stati Uniti il dibattito resta concentrato sull’Iraq. La vittoria democratica alle elezioni di mezzo termine apre certamente più che uno spiraglio al ritorno di una preoccupazione più pressante per la Palestina e degli stessi parametri di Clinton. Tuttavia, non è detto che la Palestina e il Vicino Oriente diventino prioritari rispetto al Golfo come accade oggi, di nuovo, in Europa. Su questo sarà decisivo il piano che il gruppo “bipartisan” guidato da Baker e Hamilton presenterà fra circa un mese circa. Non sembra comunque probabile che ci possa essere un rovesciamento di priorità e questo è anche comprensibile, posto che gli USA, a differenza degli europei, sono impantanati in Iraq ed è da questo paese che qualsiasi loro recupero strategico deve iniziare. Tuttavia, una visione complessiva diversa, nella quale potrebbero anche essere diversi il peso dell’Iran e la politica da condurre verso questo paese, potrebbe emergere.
È evidente che gli europei debbono aspettare la ridefinizione della strategia americana in Medio Oriente, strategia che il gruppo Baker-Hamilton ha avviato e la sconfitto alle elezioni ha reso ormai non più rinviabile. Quando questa strategia sarà ridefinita, l’Europa potrà cercare di negoziare una strategia comune nel quadro atlantico. Ciò avverrà sotto la presidenza tedesca. Questo non significa che nel frattempo gli europei abbiano motivo per starsene fermi: ogni passo, condotto in modo da rafforzare la solidarietà europea e darle una piattaforma, contribuirà a rafforzare la loro posizione di domani sul tavolo transatlantico e accrescere le possibilità di una normalizzazione in Medio Oriente.