Dopo le elezioni in Bosnia
Le elezioni del 1° ottobre scorso in Bosnia non hanno disciolto la tripartizione politica che divide il paese. All’ombra dell’accordo di Dayton, del protettorato internazionale e della missione militare presente nel paese, la violenza è cessata e, secondo molti esperti, malgrado le forti tensioni, difficilmente potrebbe sfociare di nuovo in una guerra. Tuttavia, praticamente nessun problema politico è stato risolto in direzione di uno stato multi-etnico ma basato sui moderni principi di eguaglianza e cittadinanza che governano l’Europa.
L’impatto di queste elezioni non sembra destinato, perciò, a facilitare il futuro della Bosnia, che a metà del 2007 dovrebbe divenire indipendente, cioè uscire dal protettorato sotto il quale essa oggi si trova. Che farà la Bosnia? Sceglierà di diventare una federazione democratica, secondo quello che è stato l’obiettivo della comunità internazionale, oppure si frammenterà in stati più piccoli animati da ideologie e sentimenti sciovinisti? D’altra parte, l’impatto non pare neppure destinato a facilitare il decorso della questione serbo-kosovara, che nel calendario diplomatico dovrebbe avere una soluzione anche prima della fine del protettorato bosniaco. Ma, se possibile, i termini di questa questione sono ancora più difficili e aspri.
Rischio di secessione
Il Gruppo internazionale di Contatto che si occupa dei Balcani occidentali ha da tempo stabilito che riterrà inaccettabile tanto la divisione dell’attuale Federazione jugoslava fra Serbia e Kosovo quanto la fusione del Kosovo con entità albanesi contigue (la Grande Albania). Mentre la “Grande Albania”, grazie al successo delle politiche occidentali ed europee in Macedonia (Fyrom) e nella stessa Albania, sembra di fatto tramontata, la secessione del Kosovo dalla Serbia è invece una prospettiva assai concreta.
Nel corso dell’anno, il Gruppo di Contatto – specialmente gli Usa – ha accresciuto le pressioni perché si arrivi a una soluzione della questione kosovara entro la fine del 2006. Al tempo stesso, tuttavia, le potenze che compongono il Gruppo non sembrano avere grandi idee su cosa fare per contrastare la ferma volontà da un lato dei kosovari, di fare del loro paese un’entità indipendente e sovrana e, dall’altro, dei serbi di costituire una sorta di partizione etno-territoriale all’ombra del fantasma della Federazione.
I kosovari desiderano la secessione dalla Serbia, puntando ad avere non solo l’indipendenza, ma anche la sovranità. Inoltre, si capisce abbastanza chiaramente che, una volta acquisita indipendenza e sovranità, non intendono dare nessuna garanzia alla minoranza serba che, perciò, verrebbe messa nella condizione di emigrare oppure “kosovorizzarsi”. Infine, è anche chiaro che aspettano solo di realizzarsi come stato sovrano per accampare una pretesa sulla valle del Presevo, a maggioranza kosovara, nel sud della Serbia.
D’altra parte, i serbi non intendono accedere a nessuna partizione. Essi, alle strette, sono disposti ad accettare l’indipendenza del Kosovo, intendendola come una sorta di estrema autonomia, ma sulla sovranità non sembrano invece minimamente disposti a transigere. È su questa nozione di un Kosovo “indipendente”, ma non sovrano, che si basa la politica di “decentramento” portata avanti negli ultimi anni dal governo serbo. Ai termini di questa politica, Belgrado esercita una giurisdizione diretta sui serbi kosovari, nella poche municipalità restate abbarbicate sul terreno del Kosovo, senza passare quindi per Pristina. L’obiettivo di Belgrado è non solo quello di proteggere militarmente le comunità serbe in Kosovo, ma di costituirle in una “entità” serba, simile all’entità serba della Repubblica Srpska in Bosnia, onde avere in mano un potente strumento politico e militare di interferenza nell’indipendenza (non sovrana) del Kosovo.
Politiche a confronto
Si confrontano, quindi, la politica di esclusione (e pulizia) etnica del Kosovo e quella di partizione etno-territoriale (denominata di decentramento) della Serbia – cui non potrebbe mancare di fare seguito una simmetrica politica serba di pulizia etnica. Se il Gruppo di Contatto accedesse alla partizione, aprirebbe la diga che oggi impedisce la politica di esclusione etnica del Kosovo e le sue prevedibili conseguenze: persecuzione della minoranza serbo-kosovara, irredentismo verso la valle del Presevo, reazioni serbe, tensioni (anche se, pure qui, si ritiene che non ci sarebbe un’ennesima guerra balcanica). E, infatti, il Gruppo di Contatto non intende consentire la partizione.
Tuttavia, se il Gruppo di Contatto mantiene il divieto di partizione e, al tempo stesso, chiede una soluzione a breve scadenza, aprirà le porte al consolidamento della politica serba di partizione etno-territoriale, con tutte le conseguenza che si possono immaginare. In entrambi i casi e in entrambi i paesi, le conseguenze sarebbero disastrose non solo per le violenze e le tensioni che ne proverrebbero, ma anche fatali per quel tanto di prospettiva di riforma politica che vi si è affacciata.
La politica di decentramento è, innanzitutto, una politica che tradisce i principi e gli obiettivi per cui Ue e Usa si sono battuti durante quindici anni. In secondo luogo, è ovvio che i kosovari non accetteranno il decentramento e quindi questa politica è sprovvista di ogni stabilità, anzi è una ulteriore fonte di conflitto. D’altra parte, un cambiamento di rotta che consentisse la partizione di quanto oggi resta della Federazione jugoslava, tradirebbe anch’esso principi e obiettivi e sarebbe una non minore fonte di instabilità. La realtà è che una soluzione accettabile non è matura e che il Gruppo di Contatto non può far finta che lo sia solo perché premono, specialmente su alcuni suoi membri, problemi nel presente ben più pressanti, come il Medio Oriente e la proliferazione delle armi di distruzione di massa.
Il Gruppo di Contatto non deve dire ciò che non è accettabile, bensì ciò che i due paesi debbono fare. L’imperativo è una seria politica di reintegrazione delle minoranze. Su questo serbi e kosovari hanno completamente evaso le intenzioni di fondo dei loro tutori occidentali e gli stessi occidentali si sono mostrati troppo acquiescenti e vaghi.
Il ruolo dell’Ue
In questo quadro, una forte condizionalità dovrebbe esser esercitata dall’Unione Europea. Come esercitare tale condizionalità? Oggi, né la Bosnia né la Serbia hanno un accordo con l’Ue, dunque la condizionalità sta innanzitutto nel dare o negare l’accordo. Il partito “inclusivista” sostiene che bisogna aprire senza indugi le trattative, onde arrivare a degli accordi che rafforzerebbero i moderati e democratici e consentirebbero, quindi, un decorso favorevole delle due crisi che si prospettano. L’altro partito sostiene che invece i due paesi debbano soddisfare delle condizioni preliminari all’apertura delle trattative. Ma questa seconda strada è realistica solo se nei due paesi l’ingresso nell’Ue è sentito come un premio preminente. Questa era la situazione che esisteva nel paesi dell’Europa centro-orientale quando hanno firmato preliminarmente il Patto di Stabilità – che li ha obbligati a lasciar interamente cadere le rivendicazioni etniche e rispettare invece le minoranze. Il rischio esiste che in questi due paesi balcanici prevalga invece lo sciovinismo. Gli sciovinisti non vedono l’ingresso nell’Ue come un obiettivo preminente. Perciò, nei loro confronti la condizionalità è destinata a rivelarsi un’arma spuntata.
In queste condizioni occorre forse, innanzitutto, essere pronti a non chiudere la partita. Se nazionalisti e sciovinisti capiscono che c’è fretta di andarsene, essi sono automaticamente rafforzati. In secondo luogo, forse occorre davvero aprire i negoziati, ma in questo caso fare del monitoraggio della Commissione non solo un cane da guardia, né semplicemente un fattore esortatorio (come nel caso della Turchia), ma un vero e proprio strumento di duro indirizzo al cambiamento.
Sarà bene che il gruppo di Contatto e la comunità internazionale si rassegnino a pensare che nei Balcani si deve ancora restare, in una forma o nell’altra. Se non sarà così c’è il rischio che alle gravi crisi in corso nel Medio Oriente torni ad aggiungersi una grave crisi anche nei Balcani. Oltretutto, con l’inclusione nell’Ue di Romania e Bulgaria, i Balcani sono ormai qualche cosa di più del cortile di casa.