Le occasioni diplomatiche dopo il conflitto fra Israele e Hizbollah
La guerra condotta da Israele contro il Partito di Dio libanese nel luglio-agosto 2006 si collega agli altri sviluppi che si sono avuti nel Medio Oriente a partire dal 2003. Questi sviluppi hanno origine, infatti, nella decisione americana di invadere l’Iraq con l’obiettivo di far emergere in questo paese una democrazia e di innescare un movimento di democratizzazione nell’insieme della regione. Questo progetto si è rivelato inconsistente e l’occupazione americana ha invece provocato la frattura dell’Iraq fra le sue componenti etnico-religiose.
La presenza militare americana in Iraq, aggiungendosi a quella in Afghanistan e Asia centrale, ha acuito le percezioni di minaccia in Iran e ha favorito l’ascesa dell’attuale leadership radicale e nazionalista. Questa leadership ha scelto una strategia di difesa in avanti, prendendo iniziative interne (lo sviluppo nucleare) ed estere volte a coagulare un fronte rivoluzionario sciita come piattaforma di una più vasta aggregazione mussulmana, antioccidentale e antiamericana.
Questa piattaforma tende ad appropriarsi di tutti i temi di lotta e di conflitto della regione, in particolare del conflitto arabo-israeliano. Essa, in questo senso, sta sostituendo con successo l’egemonia di al Qaida nella mobilitazione politica e ideologica dei mussulmani e della regione. È a questo punto che gli eventi si ricongiungono con l’attivismo sciita in Libano e si aprono verso nuovi possibili sviluppi conflittuali.
La nuova egemonia sciita
Gli sviluppi che si sono susseguiti dal 2003 hanno apportato notevoli cambiamenti al panorama strategico della regione. Il primo è l’ascesa degli sciiti nella regione e l’egemonia politica che ciò gli provvede. L’Iraq, nato ed evoluto come baluardo sunnita, sta diventando un paese ad egemonia sciita. Il Libano sta anch’esso seguendo la stessa parabola, e dietro il conflitto con Israele c’è la crescita della componente sciita sia in termini demografici, sia in termini politici e quindi una forte tensione negli equilibri interni del paese.
Nel complesso, la regione appare oggi polarizzarsi in un confronto sciita-sunnita. Tuttavia, gli sciiti sono oggettivamente alla testa di uno schieramento islamista e antioccidentale che raccoglie tutte le forze, anche sunnite, che si mobilitano in senso antioccidentale. La linea di scontro è dunque sciita/sunnita ma è anche fra radicali e moderati, anti e filoccidentali. In questo senso si può parlare di egemonia sciita nel Medio Oriente.
Un secondo cambiamento sta nel fatto che gli Stati in ascesa, o comunque forti, della regione sono tutti non arabi: Turchia, Iran e Israele. Anche i curdi in un certo senso sono in ascesa grazie all’autonomia che la presenza americana in Iraq ha loro portato.
Il terzo cambiamento è il reciproco del secondo: gli Stati arabi o sono scomparsi dalla scena, o hanno un ruolo secondario. Tutti si trovano sulla difensiva. Con l’eccezione della Siria, essi hanno tutti buone relazioni con l’Occidente, quando non sono suoi alleati. La presenza e la pesante interferenza americana nella regione li indebolisce politicamente nei confronti delle opposizioni interne, islamiste e nazionaliste che siano. Inoltre, l’incapacità degli Usa e dell’Occidente di venire militarmente a capo delle forze radicali che combattono in Afghanistan e Iraq ha contribuito rafforzare i radicali e far emergere gli sciiti e, invece, ha contribuito a indebolire amici e alleati, cioè i moderati e i sunniti.
Le opzioni strategiche dell’Occidente
In sostanza, lo scontro in corso nella regione è essenzialmente interno. Tuttavia, non c’è dubbio che, in questo scontro interno, l’Occidente è fortemente implicato, ben al di là dei suoi normali e legittimi interessi. Lo scontro è in parte alimentato e orientato dalla stessa partecipazione ad esso dell’Occidente. Perciò, è innanzitutto necessario rendere all’impegno occidentale nel Medio Oriente una sua ragion d’essere più cogente e quindi una proporzione più adeguata. In gran parte, questo significa ricondurre la presenza occidentale a una dimensione, da un lato, più politica e diplomatica e, dall’altro, più consona alla legalità internazionale.
Due opzioni strategiche appaiono aperte dinnanzi agli occidentali. La prima è quella che perseguono gli Stati Uniti. L’amministrazione americana continua a portare avanti una politica di scontro, nella quale si trova alleata con le forze perdenti, soprattutto perché è la sua stessa politica a provocare il coagularsi delle forze antioccidentali e il loro rafforzamento. La politica americana in occasione della crisi libanese ha, da ultimo, confermato questa tendenza, cercando di orientare gli sviluppi del conflitto nel senso dell’apertura di un terzo fronte contro le forze islamiste, nazionaliste e, ora, anche sciite, dopo l’Afghanistan e l’Iraq. Tutto sommato, la logica di fondo di questa politica è quella di tagliare i nodi politici esistenti ottenendo delle vittorie militari. Questa opzione non sembra destinata a un esito positivo e ha causato una situazione molto difficile che potrebbe aggravarsi.
Una seconda opzione è quella di affrontare i problemi politici alla radice dell’antioccidentalismo del Medio Oriente e, offrendo loro una soluzione positiva e consensuale, rafforzare il fronte filo-occidentale e le diverse forze sociali della regione che sono interessate a un dialogo culturale e politico con l’Occidente. Per questo è necessario ritornare al conflitto arabo-israeliano, a cominciare dalla componente palestinese, per proseguire con quella siriana, e volgersi poi alla più complessa situazione del Libano. La soluzione di questi conflitti potrà provocare delle radicalizzazioni nell’immediato, ma non c’è dubbio che nel medio- lungo termine rafforzerà le forze moderate – comprese quelle che oggi si vanno raccogliendo nei partiti islamisti ad orientamento democratico – e porterà alla normalizzazione della regione .
Una diplomazia nuova in Medio Oriente
La tregua in corso fra Libano e Israele e l’intervento dell’Onu nel conflitto con il rafforzamento della sua forza d’interposizione presentano opportunità favorevoli all’inaugurazione di una diplomazia nuova in Medio Oriente nel senso che si è appena detto. L’amministrazione Usa guarda con scetticismo e qualche diffidenza alla missione che l’Europa ha intrapreso nel quadro della risoluzione 1701, perché la valuta in contrasto con la sua prospettiva di prosecuzione e rafforzamento dello scontro regionale. L’amministrazione vorrebbe che la 1701 fosse usata, al di là del suo stesso dettato, come strumento di coercizione e disarmo dei miliziani di Hizbollah. Reputa, d’altra parte, che gli europei non sapranno o non vorranno procedere con determinazione a farlo. Al contrario, una parte maggiore e qualificata dell’opinione americana conviene con l’idea che la missione europea non deve essere destinata a svolgere un ruolo coercitivo bensì politico e, quindi, a creare occasioni perché inizi nella regione un’azione diplomatica volta a sciogliere i nodi all’origine dello scontro.
Questa stessa parte dell’opinione americana vede, inoltre, nell’iniziativa europea un rilancio dell’alleanza transatlantica dopo l’eclissi causata dall’Iraq. L’importante è che l’Europa ci sia e si impegni nella stessa direzione degli Usa. È meno importante che ci siano poi divergenze sulle politiche specifiche o sull’ampiezza delle opportunità che di fatto la regione offre alla diplomazia per la soluzione dei conflitti. Questa parte dell’opinione americana, dopo l’esperienza della politica di Bush in Iraq, è convinta che condizione di una leadership globale americana effettiva è di agire di concerto con gli alleati in un quadro quanto più multilaterale e internazionale possibile.
Va infine notato che anche da Israele vengono consensi all’iniziativa europea. Essa viene giudicata bilanciata, se non addirittura favorevole a Israele dagli ambienti più moderati. Viene anche vista come un buon aiuto nella fase di spinoso ripensamento che ha generato la conclusione della guerra con Hizbollah con le sue implicazioni regionali e interne.
Si apre dunque una stagione diplomatica da inventare ed eseguire con equilibrio e professionalità. Le prime indicazioni vanno verso la Palestina ma anche verso la Siria. L’Italia, che ha favorito con la sua determinazione il varo della nuova Unifil in Libano e contribuito così a rilanciare il ruolo dell’Onu verso il Medio Oriente, potrebbe continuare a svolgere questo ruolo di punta mettendo in cantiere un’azione diplomatica di grande respiro, rivolta a protagonisti e comprimari della regione, nel tentativo di preparare il terreno a una combinazione internazionale capace di dare finalmente soluzione ai conflitti storici della regione e disinnescarne l’instabilità.