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Scenari globali

Un nuovo ruolo per l’America nelle crisi internazionali

2 Ago 2006 - Emiliano Alessandri - Emiliano Alessandri

Intervista a Esther Brimmer

Il conflitto tra Israele e Libano che infiamma il già tormentato Medio Oriente riporta in auge la questione del ruolo della comunità internazionale nella gestione dei conflitti. La conferenza tenutasi a Roma il 26 luglio ha segnalato la volontà delle grandi potenze di concertare le rispettive azioni diplomatiche. Notevole è stato l’attivismo del Segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, che aveva compiuto un viaggio a sorpresa a Beirut e in Israele per sondare la situazione sul campo prima di prendere parte ai lavori della conferenza. Questo rinnovato impegno americano a favore dello strumento diplomatico pare venire incontro alle richieste avanzate all’amministrazione Bush dai governi europei dopo gli aspri dissensi sull’intervento militare in Iraq. Anche la “superpotenza senza rivali”, sottolineano le diplomazie europee, dovrebbe ascoltare i suoi alleati prima di agire e dovrebbe ricorrere allo strumento militare solo in ultima istanza. Ma quanto è realmente cambiata la politica estera americana durante il secondo mandato di Bush? Siamo sicuri che le tensioni transatlantiche si siano appianate? Ne discutiamo con Esther Brimmer, direttore della ricerca presso il Centro per le Relazioni Transatlantiche della Scuola di Studi Internazionali Avanzati (Sais) della Johns Hopkins University a Washington D.C.

È prematuro esprimere una valutazione sull’azione americana nel contesto della crisi tra Israele e Libano. Crede tuttavia che lo sforzo diplomatico della Rice confermi quella che molti commentatori internazionali vedono come una virata della seconda amministrazione Bush verso un approccio multilaterale e diplomatico alla soluzione dei conflitti?

È sicuramente troppo presto per esprimere un giudizio definitivo, ma non mi sembra che la risposta iniziale americana alla crisi in Libano sia un buon esempio di diplomazia. Mi pare al contrario che le troppe esitazioni sull’imposizione di una tregua tra le parti dimostri che Bush e la Rice siano ancora convinti che lo strumento militare possa costituire il modo adeguato per risolvere problemi politici, come quelli che oppongono il popolo di Israele agli Hezbollah.

Sta dicendo che in fondo nulla è cambiato nella politica estera americana del secondo mandato di Bush?

No, il mio giudizio si ferma al Libano. Su altre questioni importanti, credo si siano verificati cambiamenti significativi. Il catalizzatore del nuovo approccio dell’amministrazione americana è stata la situazione terribile in cui versa l’Iraq. La débacle irachena ha messo sotto gli occhi di tutti che anche la superpotenza americana non ha le risorse sufficienti per gestire da sola i conflitti internazionali. Anche l’egemone ha bisogno di partner. Questo rinnovato interesse per l’approccio multilaterale si sta rendendo evidente in questioni come quelle della Corea del Nord e dell’Iran.

Come sta evolvendo, secondo lei, la questione iraniana?

Anche in questo caso è prematuro esprimere un giudizio definitivo, soprattutto perché si può al momento solo speculare sulla strategia che Teheran adotterà come risposta alle richieste occidentali. Tuttavia, l’elemento nuovo e importante è che a Washington si parla ora seriamente di diplomazia. Ancora più notevole è che l’amministrazione Bush sembra essere disposta a lasciare la guida a Francia, Germania e Gran Bretagna, la cosiddetta UE-3. Bush ha frenato sul versante delle sanzioni e sta lasciando che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu lavori sulle linee direttive che l’Europa ha proposto come base di un’azione diplomatica.

La nuova stagione della politica estera americana passa, dunque, attraverso un recupero della fiducia degli alleati europei?

Cruciale è stata la visita che il presidente Bush ha fatto nel febbraio 2005 alle istituzioni europee all’inizio del secondo mandato. La visita a Bruxelles, sede della Nato e della Commissione europea, nonché capitale simbolica dell’Unione europea, è stata importante da un punto di vista anche storico: la prima visita ufficiale di un presidente americano in carica alle istituzioni comunitarie europee. Non direi tuttavia che le tensioni transatlantiche sono appianate. Purtroppo, le differenze persistono e a volte sono profonde. Riguardano il modo stesso di intendere le minacce internazionali.

Quali sono queste concezioni divergenti?

Gli attacchi dell’11 settembre sono stati davvero uno spartiacque. La campagna contro il terrorismo è l’elemento centrale della politica estera di Bush. L’America sta modificando le proprie relazioni con gli altri paesi della comunità internazionale a seconda del loro impegno o della loro rilevanza strategica nella guerra al terrorismo. Per le nazioni europee la vittoria sul terrorismo è un obiettivo prioritario, ma non tale da cambiare in modo sostanziale la natura delle loro relazioni con l’estero.

Strettamente legata alla percezione della minaccia terroristica, vi è poi la questione dell’uso della forza. Come la ricerca del German Marshall Fund ha messo in evidenza (Transatlantic Trends 2005), il 55% degli americani ritiene possibile, nonostante le ombre sulle motivazioni vere dell’intervento militare in Iraq, che sia possibile condurre una “guerra giusta”. Vale a dire, che la forza militare di un paese possa essere impiegata per risolvere in modo efficace una ingiustizia. Anche se in percentuale diversa da paese a paese, gli europei sono invece in maggioranza contrari a questa idea. Questa divergenza di vedute sulle minacce internazionali e il modo più corretto per risolverle sta condizionando la politica occidentale non solo verso l’Iraq, ma anche in crisi minori, come nel caso dell’intervento umanitario a favore delle popolazioni del Darfur.

Vi è dunque discrepanza nel modo di intendere il concetto stesso di sicurezza nazionale?

Direi che c’è al momento una difficoltà comune da parte dell’Occidente a definire le varie dimensioni della sicurezza di una nazione e stabilire poi chi all’interno della complessa macchina di uno Stato chi ha il compito di garantire cosa. Ecco perché ho di recente pubblicato un libro che si propone di fare chiarezza sui termini. È un invito a intensificare il dialogo transatlantico su questi temi così importanti.

Lei ha servito nel Policy Planning Staff del Dipartimento di Stato alla fine degli anni ’90, quando era presidente il democratico Bill Clinton e la politica estera americana era condotta dalla signora Albright. Crede che alcuni dei problemi che ci troviamo ora ad affrontare a livello transatlantico siano dovuti a una “rivoluzione” che Bush ha compiuto nel concepire il ruolo e la sicurezza degli Stati Uniti nel nuovo secolo?

Credo davvero che l’amministrazione Bush abbia marcato una rottura con la tradizione americana precedente. E lo ha fatto almeno su due questioni fondamentali: l’atteggiamento nei confronti delle istituzioni internazionali e l’uso della forza. Per ben sessant’anni, dalla fondazione delle Nazioni Unite e della Nato, la politica estera americana si è basata sul principio che era nell’interesse degli Stati Uniti partecipare attivamente al funzionamento delle istituzioni internazionali multilaterali. Questa idea fu condivisa dal Partito Democratico così come da quello Repubblicano. Bush e la sua squadra di governo hanno abbandonato questo principio a favore di coalizioni e alleanze ad hoc. Anche nell’area del commercio internazionale, l’amministrazione Bush si è distinta per una preferenza per gli accordi bilaterali piuttosto che per le negoziazioni a base ampia, come quelle del Doha Round in seno al Wto.

Per quanto riguarda l’uso della forza, il problema non riguarda solo l’intervento in Iraq, ma più in generale l’idea che i problemi politici si possano risolvere con mezzi militari. Se Clausevitz ha ragione nel sostenere che la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, a maggior ragione, un superpotenza come gli Stati Uniti prima di ricorrere al conflitto armato dovrebbe avere individuato una strategia politica capace di servire i suoi interessi politici ed economici nel lungo periodo. L’amministrazione Bush, prima ancora dell’11 settembre, si era proposta un obiettivo molto chiaro: impedire a qualsiasi altra nazione di raggiungere la parità con gli Stati Uniti. Invece di usare il potere ineguagliato della superpotenza americana per costruire un “impero benevolo”, Bush ha sfruttato il “momento egemonico” di cui l’America gode per condurre una campagna a tutto campo contro i suoi nemici, reali o potenziali. L’avere abbinato a questa aspirazione una fissazione e uno schiacciamento sullo strumento militare ha fino ad ora reso l’America meno amata e più vulnerabile.