IAI
Crisi Israele-Libano

Un difficile passo per la diplomazia internazionale

9 Ago 2006 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

Il tentativo in atto alle Nazioni Unite di risolvere la crisi fra Libano e Israele si palesa particolarmente arduo per due motivi. Innanzitutto, le condizioni politiche sono troppo negative per consentire senza problemi la necessaria graduazione del disimpegno militare fra le parti belligeranti. Tale graduazione si riflette nel progetto di una prima risoluzione di cessazione delle ostilità e di una seconda risoluzione volta, invece, a stabilire le condizioni di un più durevole cessate il fuoco e di un intervento militare internazionale destinato, nel tempo, ad avviare un processo politico idoneo a contenere e risolvere le cause del conflitto che è all’origine della crisi attuale. In secondo luogo, questa seconda fase del progetto si presenta a sua volta difficile (e ostacola anche l’avvio della prima) perché non solo incide su diversi fattori più regionali che locali, ma forse soprattutto perché i neocon sognano di gestirla in corso, in modo che assuma un ruolo strategico risolutore della più vasta tensione che oggi attraversa il Medio Oriente.

Garanzie e compromessi
Sul primo motivo di difficoltà occorre dire che il proposito di affrontare in due fasi consecutive la crisi è del tutto ragionevole, se perseguito – s’intende – in buona fede. Occorre creare condizioni minime perché sia possibile trovare un accordo sul modo in cui le diverse questioni (dai prigionieri allo status del territorio di Cheba’a) possano essere impostate e, soprattutto, perché i militari della forza internazionale possano affluire senza essere sicuramente bersaglio di un tiro al piccione. Tuttavia, la parte anti-siriana del Libano è troppo debole per appoggiare una simile proposta. I disastrosi bombardamenti israeliani la indeboliscono ancora di più e, del resto, hanno anche messo a tacere quei paesi arabi che inizialmente si erano mostrato ostili a Hizbollah e che ora non possono che accodarsi al coro della Lega Araba. Occorrerà trovare un compromesso e dare delle garanzie che consentano, malgrado tutto, di articolare questa prima fase di cessazione delle ostilità. Un obiettivo davvero non facile.

Se questa prima difficoltà sarà superata, si potrà passare alla seconda fase, nella quale peraltro pesano difficoltà non minori come l’obiettivo di regionalizzazione della crisi e, soprattutto, il tentativo americano di strumentalizzare la crisi in senso strategico. La questione centrale di questa seconda fase è come organizzare un’azione che serva nel medio-lungo termine a disarmare Hizbollah e farne un fattore della normale vita politica libanese. Nel breve periodo il massimo che ci si può aspettare è che l’organizzazione militare dello Hizbollah venga smantellata nel sud del Libano e che, attraverso il consolidamento dell’esercito libanese sul terreno da parte di una forza internazionale, si inizi un processo a termine di integrazione dei guerriglieri sciiti. Sarà necessario nell’immediato lasciare che le forze irregolari dello Hizbollah, per quanto indebolite, sussistano sia nei pressi di Beirut sia nella valle della Bekaa. Ottenere questo obiettivo minimo è comunque complicato dalle tendenze della destra israeliana che vorrebbe l’eliminazione di tutto l’Hizbollah militare e un rapido smantellamento dei missili ovunque essi siano. La destra americana mostra la stessa fretta, poiché intende subito usare la sconfitta Hizbollah sul piano regionale contro l’Iran.

Il ruolo dell’Europa
Ovviamente, questo complica le cose e può vanificare tutto il progetto. Occorre, invece, gettare le basi, simultaneamente al parziale disarmo che la risoluzione avvierebbe, di un processo politico destinato a coinvolgere la Siria e indebolire la catena che, attraverso Damasco, lega Teheran allo Hizbollah. Mentre alcuni, come Daniel Pipes (direttore del Middle East Institute) e Efraim Inbar (professore Università Bar-Ilan) chiedono che la Siria sia attaccata e bombardata se non si piega subito, altri come Alpher – l’ex consigliere politico di Barak – e Lavie del Moshe Dayan Center chiedono un orientamento diplomatico: il primo suggerisce che si riprendano i negoziati sul Golan; il secondo che si depenni la Siria dalla lista di stati che sponsorizzano il terrorismo.

La situazione è molto più complessa di quanto si possa dare conto in poche righe. Tuttavia, sarà sufficiente aver messo in rilievo alcuni punti su cui occorre fare attenzione per compiere scelte ponderate, non preclusive di passi successivi: un compromesso per superare lo scoglio della cessazione delle ostilità, come la proposta di Siniora di schierare 15.000 soldati libanesi al sud; una limitazione degli obiettivi da raggiungere nella fase di cessate il fuoco, onde rendere possibile la missione della forza internazionale; l’inizio simultaneo della seconda fase di processi politici volti a reintegrare la Siria. Gli europei sono quelli che, assieme alla Turchia, dovranno comporre la forza. Questo dà loro un leverage. Lo usino per indirizzare il processo verso i suoi obiettivi ed evitare i massimalismi israeliani e, più particolarmente, americani. Se riusciranno in questo avranno anche qualche carta per integrare nel processo gli arabi, che ne sono per ora i grandi assenti e la cui presenza, invece, sarebbe molto utile al successo del progetto che si sta discutendo all’Onu.