Dopo Unifil 2, che fare?
La risoluzione approvata dai ministri europei a Bruxelles nella loro riunione straordinaria del 25 agosto, sulla crisi del Libano e la forza Onu da inviarvi, è molto deludente. I media hanno dato rilievo al più congruo numero di truppe che alcuni membri dell’Unione si sono alla fine decisi a mandare, in particolare al ripensamento della Francia, onde la riunione appare come un successo. Ma, in mancanza dell’indicazione di una precisa prospettiva politica, di per sé la missione militare non è davvero molto significativa, anzi può essere il prologo di un insuccesso.
È infatti ormai chiarissimo a tutti che la cessazione delle ostilità si regge dietro interpretazioni del tutto incongrue e intrinsecamente instabili da parte dei contendenti. Il Partito di Dio non intende disarmare e adombra un processo di reintegrazione politica del Libano che ha solo due possibili sbocchi: un Libano sotto l’egemonia sciita oppure, non essendo tale egemonia accettata dagli altri, un altro round di guerra civile. Israele ha voluto una pausa di riflessione, ma tutto fa prevedere, a cominciare dal modo in cui gli sciiti vedono la tregua, che si potrebbe andare verso un secondo round del conflitto, come preannunciato dal ministro della Difesa, Peretz.
Occorre una strategia politica
La forza Onu ha in realtà un senso solo se accompagnata da una strategia politica, ma è appunto questa strategia che risulta desolantemente assente dal burocratico pronunciamento dei ministri europei a Bruxelles – specchio della grave crisi in cui continua a versare l’Europa.
Quale strategia politica? Fra le diverse indicazioni fornite dagli analisti, due appaiono particolarmente rilevanti. La prima è l’avvio di politiche occidentali volte a rafforzare la leadership moderata di Fuad Siniora e di quelli che l’appoggiano (uno schieramento che largamente si sovrappone ma non coincide del tutto con il movimento del 14 Marzo – la manifestazione per l’assassinio del presidente Hariri all’origine del ritiro della Siria dal paese). La seconda è l’opportunità di una ripresa di contatto con la Siria, nel tentativo di cambiare le convenienze che determinano il posizionamento di questo paese nell’equilibro di potere della regione.
Entrambi questi obiettivi sono difficili da raggiungere. Innanzitutto, è difficile sormontare l’egemonia sciita e, in particolare, quella che esercitano gli sciiti del Partito di Dio. L’esito del conflitto con Israele ha rafforzato l’egemonia di questo partito. La sua capacità di intervento sul territorio in vista della ricostruzione – ben maggiore di quella del Governo – la sta rafforzando.
L’integrazione nazionale di cui Sinora parla, a cominciare da quella fra milizia del Partito di Dio ed Esercito Libanese, è in realtà più che problematica. La coalizione del 14 Marzo rappresenta il modello cosmopolita ed estroverso che il presidente Hariri aveva iniziato a perseguire. Il Partito di Dio ha ben altri traguardi. Inoltre, le forze del 14 Marzo sono in minoranza rispetto a una dinamica demografica e politica che ha ormai di fatto reso obsolete anche le rinnovate basi dell’accordo interconfessionale di Taif (che, concludendo la guerra civile del 1975-89, aveva cambiato quelle in favore dei maroniti, a loro volta ereditate dal mandato francese).
Il Libano, sempre più, si prospetta come un paese a decisa dominanza sciita. In questa situazione, le interferenze esterne possono aiutare i moderati filo-occidentali, e perciò sarà utile una politica di sostegno a Siniora, ma devono procedere con cautela poiché ogni forzatura esterna sui moderati libanesi può trasformarsi in una forzatura interna e portare a uno nuovo scontro civile. Occorrerà quindi venire incontro alle richieste del governo libanese, circa il contenzioso sulle fattorie di Cheeba’a, i prigionieri, i campi minati, ma occorrerà anche farlo in modo che le concessioni lavorino poi nelle mani del Governo e non in quelle del Partito di Dio.
Il nodo della Siria
Difficile anche una ripresa dei contatti con la Siria, al fine di avvicinare (anche se non necessariamente alleare) questo paese all’Occidente. Sono ormai numerose le voci che si levano in favore di una ripresa dei negoziati fra Israele e Siria, onde portare ad una restituzione del Golan in cambio di serie garanzie di sicurezza da parte siriana. Una di queste garanzie dovrebbe essere la cessazione dell’appoggio di Damasco al Partito di Dio.
Ma, a ben vedere, il nesso fra Siria e Hizbollah era effettivo quando la Siria esercitava una diretta tutela sul paese, mentre oggi questa tutela si è per lo meno allentata e il nesso è certamente meno cogente. Esso si riduce alla possibilità che la pace Siria-Israele porti ad interrompere l’odierna logistica del traffico d’armi. Ma, oltre a questo, cosa ci sia in fondo al cuore dei siriani nessuno lo sa: il Golan, il Libano, il primato della Siria, il potere degli Assad e degli alawiti? O tutte queste cose insieme, sicché alla fine del negoziato Damasco intascherebbe il Golan ma potrebbe presentare altri conti.
Anche qui, occorre cautela. L’interruzione della logistica che oggi porta le armi allo Hizbollah non è un risultato da trascurare, ma questo risultato non corrisponde a quello di cambiare il posizionamento regionale della Siria. Questo cambiamento richiederebbe una ripresa di costruttivi contatti fra Usa e Siria, più e prima che una ripresa dei negoziati Siria-Israele. Ma la Rice non è Kissinger e, quindi, oggi questa ripresa non è plausibile. Una ripresa solo tra Siria e Israele potrebbe essere utile, ma il nuovo negoziato dovrebbe essere collocato in una prospettiva più vasta onde non rischiare di trovarsi con risultati solo parziali tra le mani.
Una prospettiva regionale
Dunque, le proposte che vengono fatte per un trattamento diplomatico della crisi – che la Unifil 2 è semplicemente destinata a tamponare – prospettano risultati utili, quindi da perseguire, ma per nulla risolutivi. In effetti, la crisi libanese non è che una delle emergenze di una regione che per motivi innanzitutto propri e poi per l’insipienza delle politiche occidentali, è ormai in costante convulsione. Per cui, una riflessione sul Libano oggi non può che essere inclusa in una riflessione strategica sull’insieme della regione. Due strategie si prospettano.
Una colloca la crisi libanese in una prospettiva di lotta dell’Occidente contro le forze ostili della regione, oggi contro l’Iran, all’apice di una piramide che comprende gli sciiti del Libano e dell’Iraq. Questo fronte protegge il riarmo nucleare di Teheran, impedisce il consolidamento del governo nazionale uscito dalle elezioni irachene e rinsalda un fronte di forze risolute a buttare a mare Israele come non esisteva più dalla fine degli anni Ottanta. La forza Onu è vista come il primo passo di una riscossa da costruire assieme all’attuale amministrazione Usa dopo il fallimento dell’Iraq e mentre l’Afghanistan resta incerto ed impervio. Questo è, per esempio, il senso dell’editoriale di Riotta sul “Corriere della Sera” del 26 agosto: “Roma e Parigi chiamano Bush”.
L’altra strategia vede la Unifil 2 e i passi diplomatici che più sopra si sono prospettati come l’inizio di una diplomazia complessiva volta a dare spazio alle forze che potrebbero essere amiche dell’Occidente e che sono invece travolte o schiacciate dalle attuali politiche di scontro che l’Occidente persegue. In questa prospettiva è urgente un ritorno di Israele a negoziare una soluzione accettabile con i palestinesi. Una soluzione in questa direzione taglierebbe i denti a molte delle forze oggi ostili all’Occidente, a cominciare dallo Hizbollah e, soprattutto, rafforzerebbe gli alleati arabi e musulmani dell’Occidente, nel Nord Africa e nella penisola arabica. E avvicinerebbe, inoltre, quelle forze politiche islamiste che stanno imbastendo un discorso democratico all’interno dei propri paesi. Non deve sfuggire che lo scontro essenziale sta da tempo avvenendo all’interno del Medio Oriente e che a questo scontro è legato il destino dei rapporti tra i paesi e i popoli di questa regione e quelli nostri. Perciò, l’Occidente deve realizzare una strategia di alleanza e non di scontro totale.
Questa seconda strategia è quella che all’Italia conviene seguire. Con la partecipazione alla forza Onu in prima posizione abbiamo fatto un passo giusto. Il secondo passo non deve muoversi sul sentiero strategico sbagliato.