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Scenari globali

Petrolio: l’irriducibile imprudenza dell’Occidente

18 Lug 2006 - Alberto Clò - Alberto Clò

Per incredibile eppur significativa coincidenza temporale, il Summit dei G8 di San Pietroburgo del 15 luglio, che avrebbe dovuto concentrarsi sulla sempre più critica questione della “sicurezza energetica”, è stato polarizzato dal peggiore degli scenari che potesse prefigurarsi: l’improvviso esplodere il 14 luglio del sesto conflitto israelo-palestinese, a seguito del proditorio attacco ad Israele degli sciiti libanesi di Hezbollah. Un conflitto di cui la “questione energetica” è, insieme, indiretta concausa e dirompente effetto.

Concausa: perché non v’è dubbio che la radicalizzazione dello scontro politico in Medio Oriente, come in altre parti del mondo, ha tra i suoi presupposti la crisi petrolifera in corso da alcuni anni. L’esplosione di 3 volte dei prezzi del petrolio, dai 25 dollari al barile del 2002 ai 78 di oggi, sospinta dallo “shock di domanda” delle economie asiatiche; l’azzeramento d’ogni “margine di sicurezza” nella produzione di petrolio e nei suoi flussi commerciali, a motivo della saturazione della capacità estrattiva/raffinativa; l’insostituibilità a breve d’ogni barile di petrolio e il totale controllo dell’offerta incrementale da parte dei paesi del Medio Oriente; la colpevole inerzia dei governi occidentali, sono tutti fattori che hanno contribuito al progressivo rafforzamento in questi anni del potere dei paesi produttori di idrocarburi, che assicurano circa i due terzi della domanda mondiale di energia.

Con un triplice pernicioso effetto: accentuarne l’intransigenza politica sul piano internazionale; acuirne le spinte nazionalistiche su quello interno; rinnovare i rischi dell’utilizzazione del petrolio e del metano come “arma di pressione politica”. Così è accaduto all’inizio del 2006 con la Russia di Vladimir Putin, che non ha esitato a tagliare le forniture di metano all’Ucraina (e indirettamente all’Europa) per risolvere la sua controversia commerciale con Kiev; col Venezuela di Hugo Chavez che ha costretto, sotto la minaccia di espulsione, le imprese estere a rinegoziare i contratti a favore della compagnia di Stato; con la Bolivia di Evo Morales che ha espropriato la maggiore impresa estera; con l’esplodere degli scontro interni alla Nigeria; e, non ultimo, con l’Iran del Presidente Ahmadinejad che ha proseguito nei suoi piani di sviluppo nucleare, indifferente a ogni monito internazionale, e ha alzato il tiro delle minacce, e ora dell’azione militare contro Israele, con l’appoggio fornito al movimento degli Hezbollah.

Ostaggi di un’opposizione irresponsabile
Una sequenza di accadimenti del tutto simile, nella sua genesi e dinamica, a quella che si ebbe con le crisi petrolifere del 1973 e del 1978: originate, rispettivamente, dall’invasione di Israele da parte di Siria ed Egitto nel giorno del ringraziamento dello Yom Kippur e dalla salita al potere in Iran dell’Ayatollah Khomeini. Crisi, anche allora favorite dal venir meno d’ogni “margine di sicurezza” nel mercato del petrolio, ma oggi molto più difficili da risolvere perché le soluzioni che ci tolsero in passato dai guai appaiono come armi spuntate. Il petrolio è per i 2/3 utilizzato nei trasporti, quindi quasi impossibile a sostituirsi nel breve termine; nucleare e carbone sono ostaggi di opposizioni irresponsabili; mentre la domanda di petrolio prosegue la sua corsa trainata da una crescita mondiale che si mantiene robusta nonostante gli alti costi energetici e che è attesa crescere nei prossimi due decenni di oltre il 50%.

Di fronte a tali scenari, e a una dinamica degli investimenti del tutto insufficiente alla bisogna, le politiche pubbliche sono impotenti e inermi. Sei mesi dopo lo scoppio della Guerra del Kippur, il governo francese approvò un “Piano Nucleare” di oltre 50 centrali, mentre il Congresso americano dette il via libera al Project Indipendence del Presidente Nixon. Trent’anni dopo, a fronte di una crisi non dissimile, nessuna decisione operativa, linea di azione, progetto è stato adottato dai governi occidentali, ove si escludano i molti ma infruttuosi documenti approvati (Stati Uniti “Energy Bill” presentato da Bush nel 2001 e approvato dal Congresso nel 2005; Gran Bretagna “White Paper” 2003; Unione Europea “Green Paper” 2000 e 2006). Le politiche pubbliche sono inermi e comunque non tali da incidere sulle dinamiche di mercato. Col riaccendersi del conflitto israelo-palestinese il peggio potrebbe ancora arrivare. I prezzi del petrolio hanno guadagnato in 4 giorni circa 4 dollari, portandosi ad un nuovo record storico prossimo ai 78 dollari al barile. Una corsa che potrebbe rallentarsi o invertirsi solo a condizione che il conflitto si risolvesse rapidamente. Alternativamente, le cose potrebbero precipitare, con livelli dei prezzi difficilmente preventivabili, qualora i traffici del petrolio subissero una qualche interruzione, la capacità di raffinazione venisse danneggiata, un qualche gasdotto preso di mira. Si pensi solo al fatto che quotidianamente il 30% dei traffici petroliferi transita nello Stretto di Hormuz – controllato dall’Iran – lungo due canali della larghezza di appena 1 miglio. Un qualsiasi sabotaggio sottrarrebbe petrolio insostituibile.

L’acuirsi delle tensioni internazionali; le minacce del terrorismo; l’aumento della dipendenza estera delle grandi aree di consumo; l’elevata volatilità delle quotazioni hanno riproposto in questi anni all’attenzione generale la centralità della “sicurezza energetica” sulle sorti degli equilibri economici e politici mondiale. Una questione avvertita sempre più come attinente la sovranità nazionale e intesa, nell’ottica dei paesi consumatori, come “sicurezza dell’offerta” in termini di sua affidabilità politica a condizioni economiche eque; e, nell’ottica di quelli produttori, come “sicurezza della domanda”: quale garanzia di accesso ai mercati finali, possibilità di recupero degli investimenti, difesa dei propri ricavi. A queste dimensioni, la recente esperienza ne ha aggiunta una terza: la “sicurezza fisica” delle forniture, nella loro intera supply chain, rispetto ai rischi del terrorismo, di conflitti, di calamità naturali (come accaduto con gli uragani Katrina e Rita).

Un G8 con armi spuntate
La speranza era che a San Pietroburgo le maggiori potenze prendessero non solo consapevolezza di tali questioni, ma concordassero una qualche azione su come fronteggiare non escludibili emergenze che dovessero a breve presentarsi. Se non altro per disinnescare spinte speculative sui prezzi che inevitabilmente ne deriverebbero. Niente di tutto ciò. Nel Documento approvato “Global Energy Security”, evidentemente predisposto prima degli ultimi avvenimenti, non v’è riferimento alcuno a come fronteggiare nell’immediato i termini della “sicurezza energetica”, mentre si enuncia un’infinita, pur se condivisibile, serie di auspici, buone volontà, intenzioni che non potranno che sortire effetti, se davvero implementate, solo nel lungo termine.

Così che l’orologio sul “che fare” sembra essersi fermato se non tornato indietro. A quando, nel Vertice dei G7 di Venezia del 1980 – si era all’apice della Seconda Crisi Petrolifera – le grandi potenze affermarono solennemente che: “La chiave per superare con successo le principali sfide economiche che il mondo intero deve affrontare consiste in un maggiore impegno a raggiungere e mantenere un equilibrio tra l’offerta e la domanda di energia, a prezzi tollerabili”. Un impegno cui fece seguito poco o nulla sul piano della cooperazione energetica internazionale: nell’illusorio convincimento che il contro-shock petrolifero della metà degli anni 1980 e la lunga fase di bassi prezzi che ne seguì, avessero strutturalmente riassorbito le ragioni delle precedenti crisi. Da qui la scelta di fondo delle politiche pubbliche di lasciare al mercato ogni sorta di decisione. Da allora le cose non sono, invece, gran che cambiate: a testimonianza dell’incapacità dei maggiori governi del mondo a fronteggiare con lungimiranza una questione, quella energetica e della sua sicurezza, che segnerà, temo, il prossimo futuro dell’intero pianeta.