IAI
Conferenza di Roma

La Siria nel mirino americano

25 Lug 2006 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

È assai probabile che la guerra in corso fra Israele e Libano sia iniziata per il soddisfacimento di limitati obiettivi di gestione delle crisi alle frontiere da parte di Israele e stia invece assumendo, via via che si sviluppa, una più ampia valenza regionale e strategica. La posizione presa dagli Stati Uniti – la cui anima sembra essere il segretario di Stato, Condoleezza Rice – è chiaramente orientata a non fermare la guerra in corso. Questa posizione è stata nettamente ribadita al ministro degli Esteri e al capo dei Servizi dell’Arabia Saudita in visita domenica scorsa alla Casa Bianca, messaggeri anche del re Abdallah di Giordania.

Essi avevano sollecitato di avere questo incontro prima della partenza per la missione in Medio Oriente, missione di cui la Rice riferirà a Roma mercoledì 26 luglio, alla conferenza del gruppo che si sta formando per gestire internazionalmente la crisi – e di cui l’Italia è parte in causa. La Rice ha anche detto che non va in Medio Oriente per iniziare un’altra storica navetta diplomatica fra i contendenti bensì per creare le condizioni onde uscire da questo conflitto non con l’ennesimo cessate il fuoco, ma con una qualche soluzione duratura nel quadro di una più duratura configurazione strategica della regione. Quale soluzione duratura?

Obiettivo Siria
L’obiettivo è apparentemente quello di mettere la Siria con le spalle al muro e ridurre finalmente il potere di un importante “troublemaker” della regione. Innanzitutto, la Siria continua ad appoggiare l’insorgenza irachena, mantenendosi tiepida verso il governo Al Maliki. L’obiettivo strategico di questa politica è di tenere impegnati gli americani in Iraq ed evitare che la loro presenza si allarghi in qualche modo alla Siria stessa. La convergenza con l’Iran esiste, ma è solo tattica. Di sicuro, la Siria non appoggia gli insorti sciiti, bensì i sunniti. Come che sia, la Siria è un importante ostacolo regionale nel decorso della crisi irachena.

In secondo luogo, malgrado il suo allontanamento dal Libano, la Siria vi mantiene una forte influenza attraverso l’alleanza con lo Hezbollah. Questa alleanza svolge un ruolo chiave nel mantenere il frazionamento della politica libanese e la debolezza del suo governo, elementi che, a loro volta, rafforzano l’influenza siriana. In terzo luogo, l’appoggio che offre a diversi gruppi palestinesi radicali, a cominciare dall’ala radicale di Hamas, completa il “leverage” regionale di Damasco, che da un lato esprime la vecchia pretesa del Baath siriano di controllo sulla Palestina storica ed egemonia sul mondo arabo; dall’altra, è una sorta di “difesa avanzata” verso i suoi nemici.

L’allontanamento della Siria dal Libano e, più in generale, il suo indebolimento è un’opera rimasta largamente incompiuta, al punto che il regime, subiti i primi gravi rovesci dopo l’assassinio di Hariri, ora comincia a raddrizzarsi. La Rice probabilmente valuta che non si può restare in mezzo al guado. Per questo, invece di occuparsi degli effetti della politica siriana intende indirizzarsi alla fonte dei problemi, cioè la Siria stessa, e la guerra di Israele a Hezbollah e al Libano ne offre l’occasione. Perciò, l’obiettivo politico della conferenza di Roma sarà quello di ridurre ulteriormente la potenza siriana e al tempo stesso sottoporre questo paese a una forte pressione diplomatica nell’intento di colpirlo, ma anche di provare a provvedergli qualche attraente compenso.

Il bastone e la carota
Il colpo sarà la forza militare – che già mostra il suo profilo di “enforcement” – che, in un quadro ONU, viene proposta allo scopo di garantire l’interposizione fra Libano e Israele e disarmare lo Hezbollah. Si parla di una forza Nato che, sul modello della Kfor, dovrebbe fungere da braccio armato di una missione Onu con compiti più penetranti dell’attuale Unifil. Questa forza non solo eliminerebbe l’alleato Hezbollah e consentirebbe al governo libanese di rafforzarsi, ma starebbe assai vicino alla Siria e costituirebbe una pressione permanente nei suoi confronti.

Più difficile immaginare quali “carote” potrebbero essere offerte ai siriani. L’idea che l’Egitto – parte del “core group” che si riunisce a Roma – avrebbe un particolare potere di persuasione verso Damasco non pare troppo convincente. Più solida è invede l’idea che tale persuasione possano esercitarla i sauditi, che furono gli “sponsor” della conferenza di Taef, quella che mise fine alla guerra civile libanese autorizzando la presenza siriana in quello sfortunato paese.

La Siria potrebbe chiedere garanzie di stabilità del regime, a fronte di un ulteriore indebolimento della sua influenza nel Vicino Oriente. Potrebbe ancora chiedere una ripresa dei negoziati con Israele, richiesta avanzata tre anni fa e alla quale Sharon non ha mai corrisposto. In ogni caso, dovrebbe mettersi in una qualche prospettiva di minore o maggiore restrizione del suo ruolo. Difficile dire se accetterà, anche se gli “ambasciatori” dovessero essere arabi. In ogni caso, collocata una forza internazionale nel sud del Libano, si troverebbe di fatto a subire una restrizione oggettiva di tale ruolo e a vedere i rischi per il regime accrescersi.

La strategia di Washington
La conferenza di Roma si troverà a pianificare degli aiuti umanitari ma, mentre su questo non ci saranno problemi (ma limitazioni come quelle sugli aiuti che la “San Giorgio” ha appena portato a Beirut e maggiori controlli su tali limitazioni), la conferenza dovrà discutere la strategia che sta emergendo a Washington. Questa strategia abbisogna di un consenso nel Consiglio di Sicurezza, ma anche di mettere a punto molti dettagli che contribuirebbero a renderla accettabile o meno: come sarà la forza, quale sarà il suo mandato, quali saranno i più ampi obiettivi regionali che l’operazione si propone di perseguire nei confronti della Siria.

Gli europei arrivano alla conferenza di Roma confortati da un inaspettato gradimento di Olmert verso una forza europea. Questo non significa che la Nato sparirebbe dal quadro. Una forza di questo tipo guidata dall’Ue dovrà senza dubbio avere il viatico delle consultazione Nato-Ue. Anzi, è bene che l’abbia se si vuole mantenere il gradimento di Israele (e diventare una pietra miliare nelle agitate relazioni euro-israeliane). Queste consultazioni, a mio parere, dovrebbero in qualche modo essere accompagnate da una sostanziale consultazione con gli alleati arabi.

Esse potrebbero avvenire in sede Nato, ma gli europei potrebbero una volta tanto anche prendere l’iniziativa di farle in sede di Partenariato euro-mediterraneo, una sede dove ci sono gli arabi ma anche Israele. Il Partenariato non prevede espressamente una tale funzione, ma potrebbe benissimo assumerla solo che le parti lo vogliano. Questo non solo rafforzerebbe il ruolo europeo, ma anche la sua “governance” nei confronti dei vicini. Rafforzerebbe inoltre la credibilità dell’operazione che sta nascendo dalla conferenza di Roma.