Israele e Palestina: gestione delle crisi o risoluzione del conflitto?
L’operazione “piogge d’estate” (Summer Rains), che il governo d’Israele ha lanciato il 28 giugno contro il territorio di Gaza, mette in evidenza, da una lato, la propensione del conflitto ad acuirsi, dall’altro, l’assenza di meccanismi endogeni e internazionali atti a tamponare, se non proprio invertire, la tendenza.
Il silenzio della comunità internazionale in questo frangente è abbastanza impressionante. L’Unione europea, con il consenso del Quartetto, ha messo in funzione un meccanismo per l’aiuto umanitario e i ministri degli Esteri del G 8, riuniti a Mosca per preparare il vertice di san Pietroburgo, si sono limitati, con qualche riluttanza, a invitare Israele a moderare i modi. Ma sul piano politico nulla, come se quello che sta succedendo in Palestina fosse un disastro naturale o la transitoria ribellione di una lontana provincia.
Il fatto è che, probabilmente, la comunità internazionale pensa ancora in termini di risoluzione del conflitto o della possibilità di riportare le parti al tavolo delle trattative, mentre il processo di pace, dopo un lunghissimo crepuscolo è ormai nella più totale delle eclissi, con l’ascesa di Hamas e l’implosione delle forze protagoniste del processo di Oslo (l’Olp, il partito Fateh e l’Autorità palestinese).
Mentre nelle cancellerie si continuava negli ultimi anni a parlare di processo di pace e a celebrare le annesse liturgie, nello stesso torno di tempo le parti in causa hanno cessato di pensare in questi termini e si sono rassegnate e orientate a gestire al meglio la crisi nascente dal comune desiderio di separarsi, ma dalla difficoltà di farlo a condizioni ritenute accettabili.
Il prezzo da pagare per la pace
Sharon si è a un certo punto convinto della necessità di separare Israele dai palestinesi per preservarne il carattere ebraico a fronte della più intensa dinamica demografica dei palestinesi. Mentre gli israeliani, come si è visto con la vittoria del partito Kadima alle elezioni dello scorso aprile, condividono questa prospettiva, ci sono ampie divergenze sul prezzo da pagare in termini di rinunce territoriali ed evacuazione degli insediamenti. Tuttavia, il problema più complicato nella gestione della crisi israeliana si è palesato con l’ascesa al governo del partito Hamas.
La reazione immediata del governo israeliano – pienamente sostenuto dalla comunità internazionale – è stata quella di sanzionarlo e possibilmente abbatterlo. Molte voci si stanno levando per contro in Israele per argomentare che la lotta contro Hamas rischia di essere fuorviante proprio nel dibattito sull’attuazione della separazione unilaterale. La piattaforma del governo di Hanyeh – distinta dalle altre correnti della stessa Hamas – è, sì, ideologicamente ostile alla pace con Israele ma, per contro, appare compatibile con gli obbiettivi della politica di separazione unilaterale inaugurata da Sharon, pienamente ripresa da Olmert e bene o male benedetta dalle elettori israeliani.
Forze palestinesi frammentate
Dall’altra parte, le forze nazionaliste palestinesi che hanno guidato sin qui la lotta per l’indipendenza, l’Olp e il partito Fateh, si sono frantumate lasciando spazio all’ascesa di Hamas, cioè dei Fratelli Musulmani di Palestina. Secondo Hamas non esistono attualmente le condizioni per un processo di pace con Israele. Il suo programma è una lunga tregua da dedicare all’islamizzazione e al rafforzamento della società palestinese onde affrontare un giorno la questione in condizioni più adeguate. Questo programma genera una crisi sistemica in Palestina, poiché le forze politiche in campo non si combattono per diversità programmatiche o ideologiche ma per l’instaurazione di due regimi politici incompatibili.
Come la crisi israeliana, quella palestinese è collegata al conflitto ma non riguarda in primo luogo il conflitto. La piattaforma di Hamas è una politica di separazione che i nazionalisti non accettano. Come la politica israeliana di separazione, non contempla la risoluzione del conflitto ma un’ipotesi per la gestione della crisi morale e politica che la Palestina attraversa.
Perciò, sembrano aver ragione quelle voci israeliane che sottolineano la compatibilità delle due piattaforme e, di qui, l’opportunità di stabilire un rapporto non certo di cooperazione ma di coabitazione fra Hamas e Israele, rapporto che, rinviando – anche di molto – il problema della risoluzione del conflitto, dia a entrambi la possibilità di gestire la propria crisi e tornare un giorno a parlare di soluzione del conflitto.
Che fare con Hamas?
Se si accetta questa interpretazione, il problema è di pagare i prezzi necessari a permettere la coabitazione, cioè preparare la compatibilità concreta delle due piattaforme di separazione. Per gli israeliani il prezzo primario riguarda il riconoscimento de facto di Hamas: lasciarlo vivere e cessare di interferire con la crisi politica interna palestinese (d’altra parte, la lezione del tentativo di interferire nella politica del Libano è proprio questa).
Il prezzo per Hamas riguarda la condizione che pongono alla tregua, che cioè Israele si ritiri alla linea verde: è chiaro che questo può essere semmai un risultato di lungo termine del processo ma non una condizione preliminare. D’altra parte, però, neppure Israele può pensare di separarsi solo alle condizioni territoriali che gli fanno comodo, oppure di ritirare tutti i coloni ma lasciare nei territori occupati tutto l’esercito ritenuto necessario.
Ha scritto un noto “ analista israeliano: “È tempo che il governo presenti il disimpegno per quello che è: un imperativo demografico e nazionale che risolve alcuni problemi e ne crea altri”, cioè ci sono prezzi da incassare ma anche da pagare. E questo vale per gli uni e per gli altri.
Oggi, tuttavia, Israele e Hamas sono impossibilitati a negoziare le condizioni per una loro separazione. Gli errori dei loro governi, specialmente di quello di Israele, e l’infingardaggine della comunità internazionale acuiscono il conflitto. Favorire la separazione fra le due parti negoziandone le condizioni concrete potrebbe allora essere il compito della comunità internazionale. Essa tornerebbe così a fare politica verso questa tormentata regione, invece di limitarsi alle esortazioni e alla carità. In altri termini, come i due contendenti, anche la comunità internazionale dovrebbe prendere atto che occorre adesso fare una politica di gestione delle crisi e tralasciare invece ogni comoda retorica di risoluzione del conflitto.