Come cambiare l’impegno italiano in Medio Oriente senza litigare con l’America
Il governo Prodi si trova a riformulare la politica italiana verso il Medio Oriente in una sequenza più rapida del previsto. Ha appena preso la decisione di rendere operativo il ritiro dall’Iraq, che già bussa alla porta il futuro della nostra presenza militare in Afghanistan. Il segretario generale della NATO è arrivato in visita a Roma il 9 giugno sollecitando un maggiore impegno italiano in quel paese (probabilmente sulla base di intese avviate sotto il governo Berlusconi). Inoltre, il G8 a San Pietroburgo potrebbe riprendere il discorso della promozione della democrazia nel quadro del Grande Medio Oriente, un tema sul quale l’Italia ha profuso un considerevole impegno e raccolto un buon successo. Dietro tutte queste scadenze mediorientali sta il problema di ricalibrare la politica verso quella regione senza compromettere la politica transatlantica dell’Italia e i suoi rapporti con gli Stati Uniti. Non si tratta di “ridislocare” l’impegno verso l’ONU, ma all’interno dell’Alleanza. Occorre perciò uno sforzo da parte del governo per verificare strumenti e concetti relativi al Medio Oriente in una prospettiva politica organica e coerente, che coniughi interessi mediorientali e transatlantici, ed eviti di rispondere colpo su colpo sia agli Stati Uniti sia ai massimalisti della coalizione di governo.
D’Alema a Washington
In questo quadro, la visita di D’Alema a Washington è percepita in Italia come un evento concentrato sull’Iraq. È probabile che l’amministrazione americana si focalizzi sull’Iraq, perché il ritiro italiano contribuisce a indebolire politicamente il presidente sulla scena interna. Ma l’Italia non ha interesse a concentrarsi sull’Iraq. Nei colloqui andrebbe ricordato che il nostro paese mantiene impegni complessi e positivi nella politica occidentale e internazionale verso il Medio Oriente, nel quadro della NATO e nel quadro del Grande Medio Oriente (Broader Middle East and North Africa-BMENA). L’impegno italiano verso l’alleato americano e le alleanze occidentali intende cambiare nella sua composizione, ma non nella sua intensità e neppure nella sua direzione.
Questa posizione, per restare credibile in termini transatlantci, dovrà essere corroborata nelle prossime settimane dall’articolazione da parte italiana, se non di progetti, almeno di orientamenti concreti riguardanti l’insieme della nostra politica verso il Medio Oriente. Quali orientamenti? Nel breve termine, la politica italiana potrebbe essere riconvertita in due direzioni. La prima comporterebbe una più decisa preferenza verso i contesti alleati multilaterali (come l’Alleanza Atlantica e il G8), sia rispetto alle coalizioni multinazionali ad hoc (come quella per l’Iraq), sia rispetto alle attività sotto egida ONU. In questo quadro multilaterale, l’Italia sarebbe pronta a svolgere tanto i ruoli militari di volta in volta necessari (dal semplice peace-keeping alle operazioni di enforcement richiedenti un uso anche offensivo degli armamenti) quanto quelli civili. L’altra direzione, già largamente annunciata, sarebbe quella di un’enfatizzazione dei ruoli civili e politici rispetto a quelli propriamente militari.
L’Italia e la Nato
In realtà, occorre dire che l’orientamento “multilaterale” italiano in ambito transatlantico è già rilevante. Il carattere politicamente assai sensibile dell’operazione in Iraq ha offuscato agli occhi dell’opinione pubblica l’importanza della partecipazione italiana nel quadro delle attività che la NATO ha sviluppato nel Grande Medio Oriente. Non solo partecipiamo all’ISAF in Afghanistan, attualmente con 1.400 uomini, ma abbiamo sostenuto con molta più convinzione e concretezza di altri alleati l’Iniziativa di Cooperazione di Istanbul – ICI (Istanbul Cooperation Initiative), lanciata nel 2004 allo scopo di alimentare un partenariato politico con i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo e di offrire loro un’accresciuta e regolare cooperazione in materia di sicurezza. La nostra amministrazione ha seguito l’ICI con particolare attenzione. Inoltre, forse non a caso, i funzionari della NATO che hanno contribuito a lanciarla e consolidarne l’attività sono italiani, a cominciare dal vicesegretario della NATO, l’ambasciatore Minuto Rizzo.
Se esiste una volontà del governo di continuare a contribuire alla sicurezza del Medio Oriente nel quadro dell’Alleanza Atlantica, la strada da percorrere potrebbe proprio essere quella di rafforzare e razionalizzare la già significativa presenza dell’Italia nelle iniziative mediorientali della NATO. Senza venire meno alla legalità internazionale, il governo può tranquillamente proporre di modificare in modo più offensivo le regole d’ingaggio del nostro contingente in seno all’ISAF, può inviare gli aerei che il segretario della NATO ha menzionato, oppure, ferme restando le regole d’ingaggio, può allargare il contingente o accrescere il ruolo delle forze navali attualmente dislocate fra il mar d’Arabia e il Golfo Persico. Può farlo in diversi modi, ma certamente è in grado di mettere sul tavolo transatlantico un maggiore impegno in Afghanistan.
Lo stesso si può dire dell’ICI, dove le opzioni di cooperazione in materia di sicurezza sono più facilmente percorribili e possono essere accompagnate anche da ruoli civili, come l’addestramento delle forze di sicurezza irachene. Un compito, quest’ultimo, che condiziona più di ogni altro fattore un eventuale futuro democratico in quel paese e, se affrontato su scala significativa, può essere decisivo nel quadro dei rapporti con gli USA.
Lo sviluppo dell’orientamento “civile” è limitato dalla decisione di non accompagnarlo con le missioni militari necessarie a proteggere la presenza del personale civile. Un’espansione “civile” a carattere organico non è possibile in quei teatri ove domina la violenza. Esso dovrà dunque dirigersi laddove le condizioni lo permettono. Difficilmente potrà prendere piede in Iraq. Tuttavia, importanti operazioni di assistenza agli iracheni potrebbero svolgersi e moltiplicarsi in Italia o in contesti multilaterali collocati fuori dell’Iraq (come, appunto, nell’ICI).
Un impegno civile
In effetti, torna ancora in evidenza l’importanza dell’aspetto multilaterale. Oltre alle attività di addestramento in ambito ICI, l’Italia potrebbe rafforzare il suo impegno civile nel quadro del Dialogo di Assistenza alla Democrazia (Democratic Assistance Dialogue), dialogo che è stato sviluppato in seno all’iniziativa del Grande Medio Oriente promossa dal G8 del 2004. In questo quadro, come si è già ricordato, l’Italia ha riportato un notevole successo nell’animare il dibattito sulla democrazia nelle società civili della regione. Questo contributo potrebbe essere accresciuto. La nostra diplomazia dovrebbe insistere perché se ne parli al vertice di San Pietroburgo e rappresentare a Washington una nostra disponibilità a continuare e rafforzare il contributo dell’Italia. Sempre nell’ambito del Grande Medio Oriente, come pure in via bilaterale, appare possibile sviluppare inoltre iniziative di addestramento delle forze di polizia e miglioramento dell’assetto giudiziario, dimensioni entrambe essenziali al futuro dell’Iraq e di molti altri paesi della regione.
Insomma, l’Italia può mantenere un livello d’impegno soddisfacente a livello transatlantico e, al tempo stesso, cambiarne i caratteri. È probabile che questo non accontenterà l’amministrazione Usa in carica, ma il messaggio oggi non va rivolto solo al governo americano, ma anche alle numerose correnti e alle forze politiche e culturali, sia democratiche sia repubblicane, che non condividono la politica di Bush e si preparano a dargli il cambio. Queste sono più disponibili ad ascoltarlo e apprezzarlo.