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Politica estera

Quale missione italiana in Iraq?

25 Mag 2006 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

Nelle sue dichiarazioni programmatiche del 18 maggio al Senato, il nuovo presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha confermato l’intenzione del governo di ritirare il contingente italiano in Iraq “nei tempi tecnici necessari”, definendone le modalità “anche con le parti interessate”, affinché siano garantite condizioni di sicurezza. Due giorni dopo a Napoli il neo-ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, ha aggiunto che il governo avvierà assai presto la ridefinizione del “carattere della presenza italiana in Iraq che diventerà una presenza civile”. La novità sta dunque nella ridefinizione in senso civile della missione, mentre il ritiro concordato con alleati e iracheni faceva già parte del programma del passato governo.

Questi orientamenti dovranno essere meglio definiti. A parte i “tempi tecnici”, l’impegno a concordare le modalità del ritiro perché non siano compromesse le condizioni di sicurezza in loco, potrebbe ritardare – e forse nemmeno di poco – il ritiro stesso. Invero, il riferimento di Prodi alle condizioni di sicurezza è – forse volutamente – un po’ vago. Per quanto vago, però, significa che il ritiro del contingente italiano non verrà fatto “alla Zapatero”.

Dunque, il nuovo governo, pur non condividendo la guerra e l’occupazione dell’Iraq – e su questo Prodi è stato molto netto – non intende venir meno all’ethos dell’alleanza con gli Stati Uniti, che non è stata inventata da Berlusconi, né alla necessità e responsabilità di appoggiare il neo-nato e debolissimo governo dell’Iraq. Perciò, il ritiro italiano è una posizione che dovrà essere definita nei dettagli e che, nella sua concreta attuazione, potrebbe essere ritardata o ridimensionata o entrambe le cose.

Che tipo di “riconversione in senso civile”?

La riconversione della missione in senso civile conferma, d’altra parte, l’intenzione di questo governo di non spogliarsi delle responsabilità di aiuto e sostegno verso l’Iraq e di volere, al contrario, sostenere – come ha detto D’Alema – la ricostruzione e la democrazia in quel tormentato paese. Anche questo orientamento dovrà essere meglio definito. Potrebbe significare l’invio di aiuti unicamente civili e il potenziamento di quelli già in corso a fronte della completa eliminazione di quelli militari. Potrebbe però essere una riconversione verso aiuti civili che comprendono una quota, anche alta, di addestramento della polizia e altri sostegni alla sicurezza interna. Potrebbe inoltre significare un incremento dell’impegno italiano nel campo civile accompagnato, però, da una, più o meno notevole, forza militare destinata a proteggerlo, in una situazione di insicurezza che non accenna invero a diminuire. Occorre aggiungere che anche l’invio di istruttori di polizia comporta facilmente il sostegno di forze propriamente militari.

La missione militare italiana a Nassirya, appiattita dal governo Berlusconi sulla politica americana, ha finito per essere percepita da molti come una missione di “guerra”. In realtà, è stata una classica missione di consolidamento successivo al conflitto, con compiti non marginali di ricostruzione civile e ripristino delle forze locali di sicurezza. La riconversione a una missione civile potrebbe, dunque, rafforzare questi compiti di ricostruzione e sicurezza e, al tempo stesso, approfittare della continuità che la missione di Nassirya mette indubbiamente a disposizione.

La scelta di una missione prevalentemente destinata alla ricostruzione, alla sicurezza civile e alla promozione della democrazia appoggiata, però, da un congruo contingente militare porrebbe al nuovo governo qualche problema di coesione della coalizione e presentazione all’opinione pubblica, ma rientrerebbe perfettamente nel modello di operazioni a sostegno della pace che l’Italia e gli alleati hanno già ampiamente realizzato nel passato, specialmente a partire dalla fine della guerra fredda, cioè sarebbero politicamente del tutto legittime e coerenti.

Le diverse opzioni andranno calibrate. È evidente che una missione unicamente civile rischia di essere pagante in termini interni, ma assai meno in termini di politica estera e di posizionamento internazionale dell’Italia. È evidente altresì che una missione civile rafforzata e protetta da una forza militare comporta costi elevati e, forse, il bilancio italiano non potrà permettersela.

L’urgenza di un’ iniziativa europea

I vincoli di bilancio e quelli della politica interna potrebbero essere alleviati se finalmente nascesse un’iniziativa comune dell’Unione europea verso l’Iraq. È questa un’iniziativa possibile? L’Iraq ha profondamente diviso l’Europa e nessuno osa riprendere il discorso, ma vero è che le condizioni sono oggi diverse. Da un lato, è nato un governo iracheno e appare difficile considerare l’Iraq come un paese “occupato”; è quindi possibile un dialogo politico con l’Iraq e gli Stati Uniti che prima era difficile. Dall’altro, le condizioni di sicurezza dell’area sono peggiorate, facendo intravedere minacce che riguardano anche l’Europa e di cui quest’ultima dovrà pure farsi carico. I rischi di frammentazione dell’Iraq si sono accresciuti e, con essi, i problemi di destabilizzazione regionale che ne potrebbero derivare, mentre l’Iran minaccia la sicurezza sia nel Golfo che nell’intero Medio Oriente.

A partire da questi cambiamenti, un tentativo diplomatico verso i partner europei volto a promuovere iniziative europee sia in seno alla Comunità europea, sia in seno alle Politica Comune di Sicurezza e Difesa, potrebbe dare qualche frutto. Forse, il momento è propizio per richiamare l’Unione ad elaborare quella politica comune verso l’Iraq che nelle condizioni del recente passato sono drammaticamente mancate. L’emergere di una dimensione europea nei confronti dell’Iraq e del Golfo rafforzerebbe la politica italiana, qualunque ne sia l’enfasi, e contemporaneamente ne allevierebbe gli oneri.