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Politica estera

Medio Oriente: una politica più “europea” per l’Italia

17 Mag 2006 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

Il governo italiano, sotto la guida di Berlusconi, ha condotto nei confronti del Medio Oriente, del Mediterraneo e dei musulmani una politica sostanzialmente appiattita su quella dell’amministrazione Bush. Il governo che gli sta subentrando si trova con un’eredità difficile poiché, da un lato, la politica americana verso queste regioni ha aggiunto nuovi e spinosi problemi a quelli vecchi senza offrire nessuna soluzione, e sarà quindi necessario prenderne qualche distanza; dall’altro, esso è in larga misura intenzionato a conservare con gli Stati Uniti un rapporto strategicamente significativo e, quindi, non intende praticare una politica “à la Zapatero”. Dovrà quindi, il nuovo governo, percorrere uno stretto sentiero fra cambiamenti nella sua politica mediorientale e rassicurazioni verso l’alleato americano; un sentiero tanto più stretto in quanto premuto ai fianchi dall’estremità massimalista della coalizione.

Il nodo israelo-palestineseQuesta difficoltà si pone nei confronti dei vari aspetti del rapporto con il Medio Oriente: il Golfo Persico – quindi l’Iraq e l’Iran – il dialogo con il mondo musulmano – quindi sia la promozione della democrazia sia l’immigrazione – la lotta all’estremismo islamista e al terrorismo, la questione israelo-palestinese. Quest’ultima, nel corso della presidenza Bush, è scesa di parecchio nella scala delle priorità. Gli europei non hanno in generale condiviso questa tendenza, ma di fatto ci si sono adattati – per non peggiorare le già forti tensioni provenienti dal conflitto iracheno – lasciando che la compiacente diplomazia del “Quartetto” salvasse le apparenze. Ora, con la vittoria di Hamas alle elezioni dello scorso gennaio in Palestina e quella del nuovo partito Kadima alle elezioni israeliane di aprile, il problema israelo-palestinese si ripropone prepotentemente e pone una nuova sfida a tutti. Quale linea il nuovo governo di Roma dovrà adottare onde, da un lato, fare fronte alla nuova situazione che si è creata nel contesto israelo-palestinese; dall’altro, conservare una credibile posizione di alleanza con gli Usa e di amicizia con Israele?

Con la vittoria di Hamas è stato messo in minoranza il vecchio apparato nazionalista, che una prospettiva di compromesso l’aveva bene o male accettata. Con la vittoria di Kadima, d’altra parte si è consolidata la prospettiva di disimpegno unilaterale inaugurata da Sharon. Il processo di pace, quale si è svolto nel quadro del processo di Oslo, è respinto dal nuovo governo palestinese di Hamas e di fatto non è più ritenuto credibile dal governo Olmert. Un po’ paradossalmente, le due piattaforme convergono nell’aver perso l’interesse a negoziare. Le due dinamiche rischiano perciò di rendere il processo di pace una non-opzione.

Con o senza Hamas? Questa tendenza è stata prontamente avallata dagli Usa e, dopo una prima esitazione, dall’Unione europea e dai suoi membri. Gli occidentali, mentre sono disponibili ad accrescere l’aiuto “umanitario” incanalato via Onu ai palestinesi, condizionano gli aiuti “politici” (essenzialmente i salari dell’amministrazione) al riconoscimento del processo di Oslo e di Israele e alla rinuncia alla violenza e al terrorismo da parte del governo Hamas. Queste condizioni sono in sé sensate, ma non rispondono necessariamente a una buona strategia politica di recupero nel medio-lungo termine della possibilità di un compromesso e, quindi, di risoluzione del conflitto. Esse corrispondono a una gestione della crisi che ha come obbiettivo quello di far crollare il governo di Hamas e ripristinare il quadro diplomatico in cui il “Quartetto” ha lavorato (a vuoto) per cinque anni nella prospettiva della pace.

Ma che cosa accade se Hamas crolla? Ammesso che cada senza che contestualmente si avvii l’ennesima guerra civile della regione, è davvero un’illusione credere in un qualche “heri dicebamus”, cioè che l’Autorità palestinese, l’Olp, il partito Fatah – tutti oggi allo sbando – chiedano che si riprenda a negoziare con Israele, e che, d’altro canto, Israele sia pronta a negoziare lasciando cadere la sua politica di disimpegno e raggruppamento territoriale. In realtà, sono già cinque anni che le due parti non negoziano e una dinamica come quella che qui si assume allontanerebbe ancora di più qualsiasi prospettiva negoziale. Se Hamas crollasse, non riprenderebbe nessun processo, tanto meno di pace: a quel punto i palestinesi sarebbero nel mezzo della confusione o della guerra civile e gli israeliani avrebbero proceduto di un altro buon tratto sulla loro strada e certamente non tornerebbero indietro.

Occorre quindi una gestione della crisi in corso che la plasmi in modo da orientarla non alla rottura definitiva, ma a una qualche reviviscenza di processi politici comuni sia ai palestinesi che agli israeliani, alla fine degli unilateralismi, e al recupero di una prospettiva di risoluzione del conflitto. A questo fine, la gestione della crisi deve puntare prima di tutto a ridare coesione al processo politico palestinese, senza compiacenze verso Hamas, ed evitare invece che questo processo cada – come in Iraq – nel caos.

Allineare l’Italia all’EuropaQuesta dovrebbe essere la prima scelta di orientamento del nuovo governo italiano, posto che le sue forze, com’è noto, convinte del valore strategico di una pacifica soluzione del conflitto israelo-palestinese per il bene della sicurezza nazionale ed europea (e occidentale) sono dunque interessate a uscire dalla crisi con una gestione capace di ripristinare la prospettiva di risoluzione del conflitto e non con una che rischi di perpetuarlo e approfondirlo.

Questa politica dispiacerà senza dubbio al governo israeliano e a gran parte dell’opinione pubblica di quel paese. Dispiacerà anche all’amministrazione Bush. Perciò, il governo italiano non deve assumerla come una posizione nazionale che esce già bell’e armata come Minerva dalla testa di Giove, ma come una prospettiva che, nel rispetto delle intese diplomatiche attuali, l’Italia intende discutere innanzitutto nel quadro europeo. Un cambio di politica è infatti necessario innanzitutto a livello europeo, dove ora prevale una posizione di supino avallo delle posizioni americane sia per le generali condizioni di estrema debolezza politica in cui versa l’Unione, sia per la gestione volutamente piatta da parte austriaca della Presidenza (in questo aiutata dal commissario – austriaco – alle relazioni esterne, Benita Ferrero Waldner).

Occorre presentare proposte italiane in sede europea, lavorando sin d’ora con la certamente più disponibile presidenza finlandese, e soprattutto dialogando con i grandi paesi dell’Unione, a cominciare dalla Germania del cancelliere Merkel. Se la posizione europea si modificherà, allora essa sarà più sostenibile e convincente nei confronti degli Usa. Di conseguenza, l’Italia potrà così anche soddisfare il secondo requisito della sua politica mediorientale, vale a dire quello di non essere in rotta con l’alleato americano (e forse neppure con gli amici israeliani).