Esportare la democrazia? Molti dubbi, poche certezze
A metà marzo l’amministrazione Bush ha pubblicato l’aggiornamento della dottrina strategica emanata nel settembre del 2002. Essa ripropone la guerra preventiva, ma con ancora più forza si focalizza sulla politica di esportazione e promozione della democrazia. Il documento inizia, infatti, con queste parole “La politica degli Stati Uniti è caratterizzata dalla ricerca in ogni paese e cultura dei movimenti e delle istituzioni democratiche e dal loro sostegno con lo scopo ultimo di mettere fine nel mondo alla tirannia”. Ma nel dibattito nazionale la politica di promozione della democrazia viene sempre più vivamente e da molti criticata.
Queste critiche dicono che, al contrario di quanto sostiene l’amministrazione Bush, non c’è nessun nesso fra terrorismo e democrazia. Il terrorismo si collega a conflitti politici interni al mondo arabo-musulmano o riguardanti il mondo occidentale, conflitti che la democratizzazione di per sé non risolve. Inoltre, è emerso con chiarezza che nel mondo arabo-musulmano c’è una forte aspirazione alla democrazia, ma essa non porta necessariamente a scelte culturali, sociali o politiche convergenti con il mondo occidentale. Al contrario, porta alla ribalta partiti religiosi e nazionalisti che non condividono gli orientamenti dell’Occidente, quando decisamente non li avversano. In questo senso, è altresì chiaro che il percorso alla democrazia gli abitanti della regione, inclusi i pochi liberali, intendono compierlo in piena autonomia.
Demoscettici vs. demoentusiasti
In effetti, la fiducia dei neoconservatori nella democrazia come “toccasana” universale appare oggi superata in ogni ambiente politico che non sia quello presidenziale. I più conservatori sono preoccupati dei danni che la politica di democratizzazione porta agli interessi occidentali e agli alleati – non democratici – dell’Occidente. Questa preoccupazione si è generalizzata e rafforzata con la vittoria di Hamas in Palestina. I demoentusiasti sono decisamente in declino. I moderati sono divisi in due correnti: entrambe sono convinte dell’inevitabile connessione fra sviluppo democratico e partecipazione degli islamisti al processo politico, ma mentre l’una accetta che vadano eventualmente al governo e si preoccupa di definire nei loro confronti i termini di un dialogo critico, l’altra sostiene che si debba navigare fra la Scilla dei tiranni e il Cariddi degli islamismi, determinando metodi e condizioni per rafforzare le forze democratiche più omogenee all’Occidente.
Il dibattito sulla democratizzazione è così arrivato a una svolta. Può essere che continui, ma anche che sia seppellito sotto il fallimento della politica di Bush e delle preoccupazioni che sta suscitando. Il rischio di questa evoluzione è che ne resti travolto anche l’altro ramo della politica dell’amministrazione americana, ossia il tentativo di mettere in piedi un quadro di governance regionale nel Medio Oriente allargato, destinato a coinvolgere le società civili e rendere possibile un dialogo dal basso verso l’attuazione di forme di governo democratiche.
Questo schema di governance è l’iniziativa battezzata BMENA (Broader Middle East and North Africa) dal G7 nel 2004. Essa ha raccolto alcuni significativi successi, poco seguiti dai media. Il BMENA ha sollevato le preoccupazioni (strumentali) dei governi della regione e quelle (sincere) delle opposizioni politiche di interferenza nel destino politico degli arabi e degli islamici. Tuttavia, è riuscito a suscitare un’aggregazione effettiva di forze della società civile in un libero dibattito, vivace e costruttivo sulla democrazia.
Prove di dialogo
Ciò è avvenuto in modo particolare nel quadro del Dialogo per l’Assistenza alla Democrazia, che il BMENA ha affidato all’impulso di Italia, Turchia e Yemen e che è stata gestita da tre organizzazioni non governative: “Non c’è pace senza giustizia” (sotto la guida di Emma Bonino), la fondazione turca TESEV, e lo Human Rights Information and Training Centre (HRITC) dello Yemen. Queste tre organizzazioni hanno permesso a centinaia di Ong di riunirsi e approvare documenti comuni di notevole interesse su argomenti cruciali come i partiti politici, i meccanismi elettivi, il ruolo dei media, delle donne, del pluralismo culturale. Particolarmente importanti sono state le riunioni organizzate nel 2005 da “Non c’è pace senza giustizia” – che ha senza dubbio avuto un ruolo preminente – a Venezia (21-23 luglio) e poi a Rabat (1-3 ottobre).
Al contrario delle politiche governative tradizionali, l’incoraggiamento di un dialogo autonomo e libero a livello delle società civili è l’unica promozione della democrazia destinata ad avere una qualche efficacia perché, da un lato, se una democrazia è nelle carte del Medio Oriente, essa non può che nascere dall’iniziativa degli interessati; dall’altro, se è così, il discorso dell’Occidente va diretto ai singoli interessati e non ai Governi, vittime predestinate del discorso stesso.
Questa politica dal basso, condotta dal BMENA, è quella che anche l’Unione Europea prevede nel quadro della sua iniziativa del Partenariato Euro-Mediterraneo. Per inciso, occorre dire che negli ultimi pochi anni il BMENA l’ha perseguita in modo più convincente che non il Partenariato nei dieci anni che da poco ha compiuto. Comunque è un orientamento che merita di essere approfondito e potrebbe costituire lo spunto di una efficace collaborazione transatlantica.
Per ora, nei rapporti atlantici, ha mancato di esserlo, mentre questa potrebbe essere la condizione di un suo maggior successo. Nel prossimo futuro, è da sperare che il fallimento della faccia arcigna della promozione della democrazia non porti a fondo con sé anche il dibattito delle società civili.
Foto tratta dal sito RPROJECTS