Che fare con Hamas?
Gli eventi che negli ultimi due anni hanno riguardato Hamas fanno pensare che i colloqui diplomatici intrattenuti con questo partito – ufficialmente dal governo egiziano, un po’ più riservatamente da parte dell’Unione Europea – abbiano portato a una modifica nella sua strategia. Hamas in effetti si è spostato da una visione militare, attuata mediante il terrorismo, ad una visione più politica. Ha stabilito con il Fatah un “allentamento delle tensioni” (tahdi’a) nel marzo 2005, cioè un cessate il fuoco, ed è arrivato alle elezioni del 25 gennaio 2006 con una piattaforma basata su tre punti: (a) il rifiuto di riconoscere Israele; (b) tuttavia, il mantenimento degli accordi già contratti con Israele dall’Autorità palestinese (AP) compatibilmente con gli interessi palestinesi; (c) e la disponibilità a mettere in pratica un sospensione delle ostilità di lungo periodo (hudna) a patto che Israele si ritiri entro le linee del 4 giugno 1967.
È evidente che Hamas ha adottato questa strategia apprestandosi ad agire per un periodo più o meno prolungato di tempo come forza di opposizione, con lo scopo di rafforzarsi mediante una più profonda islamizzazione della società palestinese e aspettare il maturare di condizioni politiche interne e internazionali più favorevoli piuttosto che condurre una campagna militare e terroristica apparentemente priva di sbocco.
Un nuovo approccio pragmatico
Con l’inattesa vittoria del 25 gennaio questa strategia, concepita essenzialmente per stare all’opposizione, è apparsa subito poco utilizzabile. Hamas l’ha quindi prontamente modificata, mettendo in secondo piano gli orientamenti di fondo della sua piattaforma e offrendo, invece, un approccio pragmatico e un basso profilo. Le dichiarazioni dei dirigenti di Hamas subito dopo la vittoria – e la stessa scelta di una figura con reputazione di moderato, Ismail Haniye, come primo ministro – invece di ribadire le contrapposizioni di fondo della piattaforma, ne sottolineano l’attitudine a consentire una separazione unilaterale di fatto fra le due parti, all’ombra della quale potrebbe maturare nel tempo una qualche soluzione del conflitto.
Va notato, per inciso, che questa posizione è paradossalmente molto vicina a quella cui, a modo suo, ha lavorato Ariel Sharon. Anche Sharon ha puntato alla separazione unilaterale e – dubitando che mai possa emergere in Palestina un partner utile – ha teso a concordare un nuovo e lungo periodo interinale con l’idea che se sono rose fioriranno. Per Hamas, tuttavia, in prima battuta questa stessa strategia non è diretta verso Israele bensì alla legittimazione del partito e della sua posizione in un contesto che tende a rifiutargliela. Hamas difficilmente può imporre le sue priorità nell’immediato ma non intende neppure rinunciarvi. Perciò assume un basso profilo e un atteggiamento cooperativo (un governo di unità nazionale, un governo di tecnici) in modo da sfuggire al dilemma e prendersi, oggi, la sua legittimazione senza dover mettere in questione le sue finalità domani.
In un paese come l’Italia, in cui durante tutto il periodo della guerra fredda la politica nazionale ha girato attorno al tentativo del Partito Comunista Italiano di entrare nel sistema lasciando planare ambiguità più o meno ampie sulle proprie finalità “antisistema”, la piattaforma che Hamas sta elaborando per sopravvivere come forza di governo senza scatenare una guerra civile, ma anche senza rinunciare pregiudizialmente ai suoi principi fondamentali, appare particolarmente nitida e non può che suscitare vecchie diffidenze ma anche un’intima comprensione.
Le posizioni divergenti di Europa e Usa
Hamas si confronta oggi non solo con un’assai difficile situazione interna ma anche, come il Pci, con forze esterne aventi una posta elevata nella questione e decise, se necessario, a interferire pesantemente, forse ben più di quelle con cui dovevano confrontarsi i comunisti italiani. Il dilemma di queste forze esterne è se permettere ad Hamas di legittimarsi oppure no. Lasciarglielo fare significa credere che l’integrazione di Hamas nel processo politico palestinese e nelle responsabilità di governo giocherà a favore della sua normalizzazione nel più lungo termine e che l’evidente carattere strumentale della sua posizione di oggi sarà superato domani. Se, invece, non si ha fiducia in questo tipo di evoluzione, non si permetterà certo ad Hamas di legittimarsi oggi perché questo significa semplicemente dargli modo e tempo di rafforzarsi e di tirare fuori le unghie appena gli sarà possibile e procurare, già adesso, dei danni, se non in Palestina, nell’insieme della regione mediorientale.
Le due diverse risposte al dilemma cominciano già a separare le due sponde dell’Atlantico, l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Cosa farà l’Unione? Gli alleati mediorientali dell’Occidente, in particolare l’Egitto, già propendono per una neutralità prolungata nei confronti di Hamas, rifiutano le categoriche sanzioni che gli Usa e Israele stanno preparando, e si apprestano, invece, a usare la diplomazia per cercare di plasmare la politica di Hamas, come già è stato fatto nei due anni passati. L’Ue, come risulta evidente dalla politica di gestione della crisi che ha messo in opera subito dopo l’inattesa vittoria di Hamas, in principio sarebbe chiaramente orientata nello stesso senso, ma nei prossimi giorni – quando il nuovo governo palestinese avrà preso una forma definitiva – Washington e Gerusalemme pretenderanno risposte univoche alle condizioni che subito hanno posto: riconoscimento di Israele, accettazione dell’acquis di Oslo e smantellamento dell’organizzazione militare. Ogni risposta più sfumata o possibilista apparirà loro come menare il can per l’aia. Gli europei dovranno prendere una posizione definitiva. Si vedrà nelle prossime settimane se seguiranno le loro tendenze oppure si limiteranno a seguire acriticamente gli Stati Uniti oppure si spaccheranno, come sull’Iraq, e resteranno paralizzati mentre, questa volta, è il giardino di casa che brucia.
Foto tratta dal sito RPROJECTS