Rassegna stampa africana: dalle armi turche fino al ponte tunisino per il Sahel

Pubblichiamo dei passaggi della rassegna stampa settimanale sull’Africa, curata da Jean-Léonard Touadi per RadioRadicale. È possibile ascoltare il podcast dal sito dell’emittente. Clicca qui per ascoltare

Un mercato di armi in Africa gestito dalla Turchia

In Africa in un anno sono quintuplicate le vendite di armi, lo racconta Giuseppe Cavallini in un suo articolo per Nigrizia: “in lenta ma costante espansione i rapporti di Ankara con il continente. Rapporti soprattutto commerciali, focalizzati sulla vendita di sistemi di difesa. Punta di diamante della florida industria bellica turca i droni, economici, efficienti e facili da manovrare”.

Cavallini racconta come: “Da oltre dieci anni la Turchia ha ampliato la propria influenza economica e culturale in decine di paesi africani. Oggi, tuttavia, a farla da padrone è la collaborazione nel settore militare e degli armamenti. Il governo di Ankara ha siglato accordi per la sicurezza soprattutto in Africa occidentale, con un’esportazione di droni e di altre armi senza precedenti”.

Per il momento, le esportazioni turche verso il continente per la difesa e il settore aerospaziale continuano a rappresentare solo lo 0.5% del mercato di armi vendute all’Africa, ma secondo dati recenti le operazioni di esportazione si sono quintuplicate nel 2021, raggiungendo i 460,6 milioni di dollari rispetto ai 82,9 milioni del 2020: “La crescita accelerata di queste vendite fa impressione, secondo uno studio sulla diplomazia securitaria turca verso l’Africa condotto nel 2022 dall’Istituto tedesco per gli affari internazionali e la sicurezza (Swp). Molti sono i governi africani che hanno fatto lievitare le spese per la sicurezza e la difesa – sia nei confronti dei gruppi jihadisti sempre più attivi che dei conflitti civili e interetnici – in un crescente numero di nazioni africane”. 

La Turchia si sta dimostrando un valido partner alternativo rispetto ai tradizionali paesi esportatori  di armi come la Russia, Francia, Cina e Stati Uniti. Secondo molti leader africani le armi turche, a parità di qualità, risultano meno costose di altre e soprattutto, non sono legate a ostacoli burocratici quali garanzia di rispetto dei diritti umani e politici: “I collaboratori del presidente nigeriano uscente Muhammadu Buhari hanno espresso compiacimento per le tecnologie di difesa turche nel 2021, dichiarando – anche se questo non sembra essersi verificato – che avrebbero permesso di velocizzare gli sforzi per eliminare dal paese i movimenti jihadisti e gruppi di banditi e rapitori”.

La Turchia non sta manifestando la sua presenza nel continente africano limitandosi alla vendita di armi, ma promuovendo anche programmi di assistenza per la sicurezza. La Turchia ha già firmato accordi di assistenza e addestramento militare con un crescente numero di paesi, soprattutto dell’Africa occidentale e orientale: “negli ultimi anni la Turchia ha cercato di estendere la sua presenza e il suo influsso soprattutto in Africa occidentale e centrale. Ad esempio, nel 2018 il governo di Ankara ha offerto, per la lotta contro il terrorismo islamico, 5 milioni di dollari ai G5, i cinque membri delle Forze congiunte del Sahel (Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger). E ha siglato accordi di cooperazione e di difesa con Niger, Nigeria, Togo e Senegal”.

Nel summit tra Turchia e Africa avvenuto nel 2021, erano presenti 16 paesi africani e oltre 100 ministri. Questo dimostra, secondo Aissatou Kante, ricercatore e analista in Senegal dell’Istituto africano di studi per la pace e la sicurezza, che il continente assegna alla Turchia un ruolo di grande importanza strategica nei paesi con cui collabora.

Tunisi casa della cooperazione transfrontaliera

Si è conclusa a Tunisi la Conferenza regionale sulla cooperazione transfrontaliera: Andrea de Georgio ha raccontato in un suo articolo per Nigrizia gli sviluppi nel Sahel. Si è discussa nell’ambito della Conferenza l’esternalizzazione delle frontiere: “l’Unione Europea cerca di riunire sotto la propria egida il Sahel e la Libia. I nemici dichiarati sono il crimine e la penetrazione jihadista, ma per Bruxelles l’interesse è anche il rafforzamento del contrasto alle migrazioni irregolari, tramite l’estensione dell’esternalizzazione dei propri confini in Africa”. 

La Conferenza ha riunito, su iniziativa dell’Ue, i paesi del G5 Sahel (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad), la Libia e la Tunisia. La Rappresentante speciale dell’Ue per il Sahel, Emanuela del Re, e il capo della Missione di assistenza alle frontiere dell’Ue in Libia, Natalina Cea, hanno organizzato due giorni di scambi sulla gestione comune dei confini: “obiettivo dichiarato dai Paesi partecipanti all’incontro è combattere insieme il terrorismo di matrice neo-jihadista e il crimine organizzato che nell’ultimo decennio, sfruttando la porosità dei confini e le reti transfrontaliere del contrabbando e del narcotraffico, hanno concorso a radicare l’instabilità nella regione”.

A Tunisi si è discusso soprattutto di “strategie, azioni e uso di nuove tecnologie per supportare controlli efficaci ai confini”, del “ruolo delle comunità locali in un approccio integrato nella gestione delle frontiere”, e della necessità di “perseguire i crimini frontalieri e i traffici illegali rispettando i diritti umani e frenare i movimenti illeciti di merci e persone utilizzati per scopi dolosi”.

Il comunicato congiunto, pubblicato a conclusione della conferenza, parla dell’impegno dell’Unione europea a “rendere più sicure le vite di tutti i cittadini che vivono sulle sponde settentrionali e meridionali del Mediterraneo e a permettere che il nesso sicurezza-sviluppo si sviluppi per il benessere di tutti”.

Il tema delle conseguenze e della gestione delle frontiere africane sui flussi migratori verso il nostro continente non viene direttamente citato dal comunicato, ma da ciò che è emerso a Tunisi risulta chiaro, secondo Nigrizia, che: “l’Europa sia politicamente interessata a riunire sotto la propria egida il Sahel e la Libia anche in vista del contrasto alle migrazioni irregolari e all’esternalizzazione dei confini europei in Africa.

Nel comunicato i Paesi africani hanno chiesto all’Ue che la Conferenza regionale possa in futuro diventare una piattaforma permanente di cooperazione fra gli stati aderenti. Questo, in primo luogo, per dare ulteriore impulso agli scambi di informazioni ed intelligence, oltre che agli investimenti in nuove tecnologie di controllo poliziesco e militare dei confini. Il tentativo dell’Ue è invece quello di avvicinare Libia e Tunisia al Sahel che già nel nome, che deriva dall’arabo sahil “sponda”, racchiude la propria vocazione naturale di ponte tra Maghreb e Africa subsahariana”. 

La volontà di stretta collaborazione e di controllo europeo sull’area del Sahel viene dimostrata anche dal logo scelto per la Conferenza di Tunisi: “la “L” di Libia che diventa la “S” di Sahel, con tanto di bandiere e colori dei 6 paesi, il tutto racchiuso in un semicerchio formato da 12 stelle blu, emblema dell’Europa, che formano la lettera “C” di “cooperazione” e “cross-border”. Una nuova sfida per l’Unione Europea che, nonostante resti il primo partner commerciale ed umanitario di tutti i paesi saheliani – come ricordato dalla stessa rappresentante speciale dell’Ue per il Sahel Emanuela Del Re, prima donna italiana a ricoprire questo ruolo -, soffre sempre più la concorrenza asiatica, in particolare cinese e russa, nella ridefinizione delle sfere d’influenza attualmente in corso in tutto il continente africano”.

Il Congo in guerra per i minerali preziosi

In Africa si va delineando un’ulteriore frontiera di conflitto, rappresentata dai minerali preziosi: lo racconta Pierre Haski in nell’articolo per Internazionale che titola: “in Africa si cerca di disinnescare la guerra per i materiali preziosi”. 

Secondo Haski: “alcuni conflitti ricevono meno attenzione giornalistica di altri. Uno di essi è sicuramente quello che stravolge l’area orientale della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), al confine con la regione dei grandi laghi. Impossibile capire cosa stia accadendo senza ricordare che per un decennio, a cavallo tra gli anni novanta e duemila, i conflitti nella regione dei grandi laghi hanno provocato più di cinque milioni di morti. Gli scontri attuali sono solo la prosecuzione di quelli del passato. Anche gli attori sono gli stessi”. 

Al centro del conflitto, ancora una volta l’organizzazione ribelle dell’M23, movimento del 23 marzo, etnicamente dominato dai tutsi: “nel 2013 l’M23 aveva deposto le armi, ma un anno fa ha ripreso la lotta. Il governo congolese accusa il Ruanda di spalleggiare i ribelli, una tesi confermata da un rapporto stilato dagli esperti dell’Onu e pubblicato in estate, in cui si parla della partecipazione dei soldati ruandesi e della consegna di armi. Il Ruanda, di contro, punta il dito contro la Rdc accusandola di ospitare un gruppo armato di hutu che in passato ha partecipato al genocidio dei tutsi. I due paesi sono sull’orlo di una guerra. Tra i diversi attori della regione c’è un groviglio di rivalità di potenza e tentativi di superarsi nella corsa alle considerevoli risorse naturali, a cominciare dall’oro, che secondo la Rdc sarebbe estratto dai ribelli e raffinato in Ruanda prima di essere nuovamente esportato”.

Con 200mila profughi e migliaia di rifugiati in Uganda, è ormai la popolazione a pagare il prezzo più alto: la città di Goma vive nel timore di un assalto dell’M23, i cui uomini si trovano a pochi chilometri di distanza. La mediazione tra le parti in conflitto è in mani africane: l’Angola guida le operazioni di mediazione, mentre: “all’inizio della settimana diverse centinaia di soldati keniani sono arrivati a Goma nel quadro di una forza regionale d’interposizione. La popolazione spera che siano più efficaci dei 14 mila caschi blu dell’Onu presenti dal 1999, che si sono rivelati palesemente impotenti”.

La Repubblica Democratica del Congo è il più grande paese francofono al mondo: il vertice dell’Organizzazione internazionale della francofonia che si è aperto a Gerba il 19 novembre, in Tunisia, avrebbe avuto l’occasione di affrontare l’argomento, ma ha riscontrato forti difficoltà nel farsi sentire su questi temi: “le possibilità di superare la crisi sono minime, soprattutto considerando la debolezza dello stato congolese, un’eredità storica degli anni di dittatura e saccheggio delle risorse dopo la decolonizzazione improvvisata dal Belgio nel 1960. La Repubblica Democratica del Congo ha una risorsa che è anche un handicap: possiede minerali indispensabili alla transizione ecologica, quelli che si trovano nelle batterie delle auto elettriche e degli smartphone. Queste risorse alimentano grandi appetiti: la Cina ha acquisito posizioni minerarie importanti con contratti che odorano di corruzione, ma ora gli statunitensi contrattaccano e anche le altre potenze regionali si stanno attivando”.

Haski racconta la situazione come uno dei grandi paradossi del nostro tempo: i minerali necessari per un mondo più pulito vengono estratti nelle peggiori delle condizioni ambientali e sociali e spingono i popoli a sanguinosi scontri. 

I successi e i fallimenti della COP 27

La conferenza sul clima COP 27 tenutasi a Sharm El-Sheikh a novembre si è “chiusa dopo frenetiche trattative fuori tempo massimo”, lo racconta Bruna Sironi nel suo articolo per Nigrizia, “Cop 27: sulla riduzione di emissioni nessun passo avanti”. Sironi riporta come “per una riduzione delle emissioni di gas serra il pianeta dovrà aspettare almeno un altro anno, così come dovranno fare i paesi più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico per ottenere delle compensazioni da quelli più inquinanti”. 

Il documento finale adottato a conclusione della COP 27 emerge dalla difficoltà di trovare un accordo su due punti in particolare: “la richiesta di fondi specifici per riparare le perdite e i danni del cambiamento climatico, avanzata con decisione dai paesi che ne sono più colpiti – cioè i paesi cosiddetti a basso e medio reddito, tra cui la maggioranza dei paesi africani -, e il problema della mitigazione – cioè della riduzione del danno – che implica un impegno graduale, ma veloce, con la rinuncia all’uso dei combustibili fossili, portata avanti soprattutto dalla delegazione europea, capeggiata dal vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans, sostenuto in particolare dal team tedesco guidato dalla ministra degli esteri, la Verde Annalena Baerbock, e dall’inviata speciale per il clima Jennifer Morgan, ex direttrice di Greenpeace International”. 

I paesi del sud del mondo, anche grazie alla mediazione europea sono riusciti ad ottenere il fondo “loss and damage”: si tratta di un passaggio storico giudicato un successo anche dagli attivisti per il clima. Anche Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha riconosciuto che si tratta di “un piccolo passo verso la giustizia climatica”. Il fondo, cui dovranno contribuire i paesi industrializzati e che potrà essere arricchito anche dalle donazioni di altri paesi, da fondazioni, enti privati e banche di sviluppo, dovrà essere usato per riparare i danni causati dalle crisi climatiche sempre più gravi e frequenti nei paesi più vulnerabili.

“È già stata istituita una commissione per stabilire quali paesi ne potranno beneficiare e a quali condizioni. Il risultato del suo lavoro dovrà essere presentato l’anno prossimo alla COP 28, che si terrà a Dubai, capitale degli Emirati Arabi Uniti” ha proseguito Sironi nella sua analisi. 

Nessun risultato, invece, per quanto concerne la riduzione di emissioni di gas serra per l’uso di combustibili fossili, tanto che  “Timmermans nel suo intervento finale ha dichiarato di accettare questo accordo con riluttanza. Sulle riduzioni delle emissioni è stata persa una occasione e molto tempo. Siamo a 1,2 gradi di riscaldamento e abbiamo visto quali effetti questo stia già provocando. La soluzione non è finanziare un fondo, ma investire le nostre risorse per ridurre drasticamente il rilascio di gas serra nell’atmosfera”.

Secondo Nigrizia il non-accordo sull’uso dei combustibili fossili è una vittoria per le lobby stesse del fossile: “gli interessi delle multinazionali che guadagnano dall’estrazione, dalla lavorazione e dalla commercializzazione dei combustibili fossili, e anche quelli dei paesi in cui i loro proventi sono una buona parte del Pil, sono stati rappresentati alla conferenza da più di 600 lobbisti. Secondo diversi osservatori almeno il 25% in più rispetto all’anno scorso. Visti i risultati, si può dire che sono loro i veri vincitori del confronto che si è svolto al tavolo di Cop 27. Ma sono stati facilitati nel loro lavoro anche dalla posizione della presidenza egiziana che, su questo punto, si è dimostrata debole, se non ambigua, prestandosi ad un gioco di sponda con gli stati petroliferi della penisola arabica. L’anno prossimo sarà Dubai ad ospitare la COP 28. Si può prevedere che il livello di scontro sulle emissioni di gas serra sarà ancora altissimo”.

Sironi riporta l’attenzione sul clima di crisi energetica in cui si è svolta la COP 27: “a causa della guerra russa in Ucraina. Le preoccupazioni internazionali sui rifornimenti energetici sono stati certamente un potente freno all’assunzione di posizioni più decise e coraggiose riguardo al percorso di graduale passaggio alle energie rinnovabili. Una sintesi efficace dei risultati di Cop 27 è stata data dal segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, nel suo discorso di chiusura della conferenza”, con il quale ha accolto con favore la decisione di istituire un fondo per le perdite e i danni e di renderlo operativo nel prossimo periodo.

Foto di copertina EPA/Daniel Irungu

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