Iraq 20 anni dopo: una dolorosa convalescenza

Il 19 marzo 2003, mentre iniziavano i primi bombardamenti statunitensi nel paese, il presidente George W. Bush promise di costruire un Iraq “unito, stabile e libero”. A distanza di 20 anni, la triste eredità di quella disastrosa invasione si articola su più livelli.

Dalla tragedia umana, con almeno 300 mila morti violente in Iraq tra il 2003 e il 2021, si passa alle eredità materiali: un Paese dilaniato e profondamente frammentato, con carenze di servizi di base e dove un quarto della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Vi sono poi le implicazioni istituzionali: uno dei più visibili lasciti dell’occupazione Usa è il sistema politico di stampo confessionale, che per anni ha contribuito ad esacerbare le divisioni settarie, inquinando la competizione elettorale. Regna infatti il clientelismo, con una corruzione disarmante e milioni di giovani con scarsa fiducia nelle istituzioni. Si sono inoltre moltiplicati i gruppi armati, e con loro le infiltrazioni di vicini Paesi rivali, rendendo l’Iraq terreno di scontri regionali ed internazionali, come accadde prima in Libano e in seguito nella vicina Siria.

A livello internazionale, la credibilità degli Usa, e del cosiddetto rules-based order, hanno subito un duro colpo. Le bugie e le strumentalizzazioni al Consiglio di sicurezza Onu per giustificare l’invasione, le cosiddette “armi di uccisione di massa”, hanno incrinato la legittimità morale di Washington e reso evidenti i doppi standard occidentali (rievocati negli odierni dibattiti sulla guerra in Ucraina) in ambito di diritto internazionale.

Un Paese frammentato

La nuova costituzione del 2005 ha portato ad un’esplosione di partiti organizzati su base settaria e clientelare sostenuto dalle casse pubbliche. La legge sui partiti del 2015 non è riuscita a regolamentare né i finanziamenti esterni né il ruolo delle milizie armate a loro legate, minando di fatto l’autorità centrale e contribuendo ad una profonda frammentazione del paese, con particolare rilievo per l’ascesa dell’influenza iraniana. Anche la questione curda rimane irrisolta. Nonostante l’autonomia riconosciuta nel 2005, il controverso referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno del 2017 è un ulteriore dimostrazione del fragile assetto istituzionale dell’Iraq post-occupazione.

Il sistema confessionale, soprattutto durante i governi di Nouri Al-Maliki (2006-2014), si è poi tramutata in una forte marginalizzazione della minoranza sunnita. Questa settarizzazione, esacerbata dai brutali attacchi di Al Qaeda in Iraq che miravano a fomentare la guerra intra-confessionale, portarono a picchi di violenza tra il 2006-2008. Le truppe Usa in Iraq aumentarono a dismisura, arrivando a 168 mila soldati, prima di diminuire gradualmente sino al ritiro annunciato nel 2011. Nel frattempo, il governo iracheno reprimeva le manifestazioni scoppiate nel centro-nord sunnita del paese, dove nel 2014 sarebbe riemerso il sedicente Stato Islamico (ISIS/Daesh). ISIS, l’erede di Al Qaeda in Iraq, rientrò nel paese dalla vicina Siria, occupando un territorio transfrontaliero grande come il Regno Unito prima di essere sconfitto in una brutale campagna di riconquista che culminò con la liberazione di Mosul nel 2017.

Dall’economia alla minaccia climatica

Strettamente legate al fragile equilibrio politico vi sono le questioni economiche e climatiche. L’Iraq è il quinto paese al mondo per riserve di idrocarburi, e il quinto paese più vulnerabile ad un collasso climatico secondo l’Onu.

Nonostante il miglioramento delle prospettive macroeconomiche dovuto al recente aumento dei prezzi energetici, l’Iraq necessita di una profonda diversificazione economica. Il dominio del settore degli idrocarburi ha consentito all’Iraq di mantenere un fragile equilibrio, ma ha anche facilitato la corruzione e precluso politiche di sviluppo sostenibile e di investimento nel capitale umano. Il risultato è che la maggioranza delle opportunità rimangono nel settore pubblico, ancora fortemente legato al sistema ridistributivo clientelare, il quale, oltre a favorire corruzione e immobilismo politico, non offre alternative valide alla crescente disoccupazione (passata dall’8,1% nel 2011 al 16.2% nel 2021).

Le sfide a cui va incontro l’Iraq sono ulteriormente complicate dalla crisi climatica. L’Iraq soffre di una profonda insufficienza idrica, elevate temperature e crescente desertificazione, che ha raggiunto circa il 40% del Paese. Questi fenomeni si traducono in frequenti alluvioni, tempeste di sabbia e periodi di siccità che contribuiscono a peggiorare le condizioni di vita della popolazione, in un contesto di mancate contromisure sia a livello ambientale che sociale.

Per un paese dove circa il 60% della popolazione ha meno di 25 anni, e dove sono in aumento i tassi di povertà assieme alle profonde crisi idriche ed alimentari, sono molte le incognite sul futuro. Anche le proteste popolari del 2019, che portarono alle dimissioni del governo e ad elezioni anticipate, non hanno prodotto i cambiamenti sperati, con il movimento di Tishreen brutalmente represso ma ancora attivo nel cercare di promuovere un Iraq post-confessionale.

L’Iraq mediatore regionale

Nonostante le fragilità interne, l’Iraq ha investito massicciamente negli ultimi anni per ritagliarsi un ruolo di promotore dei dialoghi mediorientali. Collocandosi de facto nella sfera d’influenza iraniana, ma con un forte ancoramento storico e culturale al mondo arabo, nonché in un complesso dialogo con la Turchia, l’Iraq svolge il ruolo di ago della bilancia tra varie assi geopolitiche nella regione. Per questo, dal 2020, Baghdad ha assunto un ruolo di mediatore, per certi versi simile a quello storicamente ricoperto dai piccoli paesi della penisola arabica nel tentativo di facilitare il dialogo intra-regionale.

È in questo ambito che si può identificare il principale barlume di speranza per il futuro. Solo attraverso una distensione regionale, basata sul dialogo inclusivo e sul principio di interdipendenza, si potranno affrontare le molteplici sfide a cui va incontro l’Iraq e la regione. Questi principi sono al centro dell’iniziativa promossa dal governo iracheno e che ha preso vita nelle conferenze di Baghdad per la cooperazione regionale tenute nel 2021 in Iraq e nel 2022 in Giordania.

Gli Stati Uniti e i loro partner europei, compresa l’Italia, dovranno fare tutto il possibile per sostenere questi dialoghi promossi dall’Iraq. L’eredità degli ultimi vent’anni, in Iraq, come in Afghanistan, ma anche nelle tragedie in Siria, Yemen, Libia e Palestina, hanno profondamento incrinato l’assetto regionale e con essa la credibilità occidentale nella regione. Generazioni intere sono cresciute in un Medioriente divenuto sinonimo di guerre, terrorismo e distruzione. Oggi la priorità è ricostruire e ricucire. È in questo ambito che l’Europa e gli Stati Uniti dovrebbero concentrare i loro sforzi, sviluppando un approccio pragmatico capace di sostenere un futuro di integrazione e riappacificazione in Medioriente. Si tratta del migliore antidoto ai conflitti e alla radicalizzazione, elementi riconducibili alla disastrosa invasione, una decisione che per vent’anni ha condannato l’Iraq e la regione ad una lunga e dolorosa convalescenza.

Foto di copertina EPA/IRAQI PARLIAMENT MEDIA OFFICE

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