La diplomazia ignorata nella scelta unilaterale di Putin

Con la decisione del 24 febbraio di dare il via una “operazione militare speciale” in Ucraina, di fatto un’invasione, e quella del 21 febbraio di riconoscere l’indipendenza delle due Repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, e di inviare truppe in missione di “peace keeping” in quei territori, Putin ha segnato un punto di non ritorno nella partita aperta da qualche mese per ottenere garanzie di sicurezza e il ristabilimento di una zona di influenza ai confini occidentali della Federazione russa. Ma la partita non è ancora chiusa. E ora dovremo cercare di capire quali potrebbero essere la portata e le conseguenze delle successive mosse del presidente russo.

L’offensiva di Putin

Con la decisione annunciata il 21 febbraio, Putin ha completato un altro tassello di una strategia di lungo termine che mira a rimettere in discussione gli equilibri di potere emersi dalla fine della Guerra fredda, a riaffermare un ruolo di protagonista della Russia sulla scena internazionale, e a contenere la presenza dell’Occidente ristabilendo una zona di influenza ai confini occidentali della Russia.

Si è trattato di una operazione sul terreno che ha riprodotto il modello seguito da Putin nel 2008 con l’attacco alla Georgia e la proclamazione dell’indipendenza delle due Repubbliche dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale. Sul piano formale l’iniziativa condotta nel Donbass si distingue invece dal caso della Crimea, che Putin decise di annettere alla Russia nel 2014 all’esito di un referendum organizzato a seguito di una rapida occupazione militare della penisola che apparteneva all’Ucraina dal 1954. Ma la sostanza è la stessa: destabilizzare i vicini per far passare il messaggio che la Russia continua a controllare le dinamiche di quella regione.

A questa iniziativa russa, americani ed europei hanno finora reagito come le circostanze imponevano, con tempismo e solidarietà. In queste circostanze era inevitabile una ferma e inequivoca condanna dì questa ulteriore violazione da parte della Russia dell’integrità territoriale di una Stato sovrano e indipendente. Così come erano inevitabili le sanzioni che sono puntualmente arrivate, per ora circoscritte e ad impatto limitato, ma accompagnate dalla minaccia di ulteriori misure in funzione degli sviluppi sul terreno. Nell’ipotesi più ottimistica Putin avrebbe potuto limitarsi ad incassare il risultato di avere indebolito e destabilizzato l’Ucraina, violandone l’integrità territoriale, ristabilendo un pieno controllo sulle due Repubbliche a maggioranza russofona, e denunciando gli Accordi di Minsk ormai di fatto superati dagli eventi sul terreno. Se dovessimo guardare ai precedenti se ne dovrebbe concludere che Putin avrebbe potuto fermarsi qui.

E razionalmente a Putin avrebbe potuto acquisire l’occupazione militare delle provincie orientali dell’Ucraina, avviare una de-escalation sul terreno e al tempo stesso riaprire un qualche spiraglio per una soluzione politico-diplomatica nel medio termine, riproponendo una qualche forma di dialogo con americani e alleati europei da una posizione di maggiore forza negoziale. In questo caso le sanzioni occidentali sarebbero rimaste verosimilmente “proporzionate” e quindi di impatto relativo. Usa e Europa avrebbero ribadito le condanne di principio, e mantenere le sanzioni adottate, ma nei fatti sarebbero stati costretti ad accettare il fatto compiuto.

Cosa vuole veramente Putin?

Dalle notizie di questa notte si direbbe che Putin non abbia intenzione di fermarsi qui. E stia avviando una invasione su più vasta scala dell’Ucraina. Se così fosse Putin si muoverebbe in coerenza con quanto aveva annunciato con il discorso del 21 febbraio nel quale aveva accompagnato l’annuncio del riconoscimento dell’indipendenza del Donetsk e del Lugansk, con molti altri messaggi: la rivendicazione dell’unità della nazione russa di cui l’Ucraina sarebbe parte integrante, un attacco all’indipendenza dell’Ucraina definita come una minaccia alla sicurezza della Russia, l’accusa all’Ucraina di agire come piattaforma per iniziative di destabilizzazione nella regione al servizio di interessi americani e occidentali.

E come se non bastasse il giorno successivo Putin aveva rincarato la dose dettando le condizioni per una ripresa del dialogo con Kiev: accettazione della annessione della Crimea, rinuncia esplicita alla adesione alla Nato, neutralità e smilitarizzazione del paese, e ridefinizione degli accordi di Minsk. Tutti annunci accompagnati da offerte di ripresa del dialogo, ma che nei fatti lasciavano aperte altre opzioni più radicali di destabilizzazione dell’Ucraina con ulteriori iniziative sul terreno.

Da questo punto di vista l’opzione più praticabile, forse quella che si sta avviando in queste ore, potrebbe essere quella di una iniziativa militare russa volta ad estendere, verso Ovest e/o verso Sud, i confini delle due Repubbliche separatiste per comprendere tutto il territorio del Donbass, invadendo così altre parti di territorio dell’Ucraina. Magari con l’obiettivo di arrivare fino alla città portuale di Mariupol per ricostituire una unità territoriale con la Crimea. È una richiesta che gli è stata rivolta dai leader delle due Repubbliche e che è stata sollecitata anche da membri della Duma. Ma non è escluso che Putin possa optare anche per altre operazioni, magari ibride e di più ampio spettro, mirate a destabilizzare ulteriormente l’Ucraina.

Il ruolo degli Alleati

Gli Usa e gli alleati europei, grazie soprattutto alla leadership americana, sono riusciti finora a mantenere una insperata convergenza su una linea di fermezza e condanna dell’intervento russo. Un risultato positivo e non scontato, se si pensa alle diverse sensibilità che esistono fra gli europei sul tema dei rapporti con Mosca e alle enormi difficoltà che ha sperimentato la Ue nel passato a definire una linea comune nei confronti della Russia. Lo testimonia la fermezza della condanna delle decisioni di Mosca e la rapidità con la quale è stato adottato il primo pacchetto di sanzioni contro la Russia.

Ma a fronte della escalation in corso sul terreno americani ed europei non avrebbero altra scelta che quella di rafforzare le sanzioni. Un’operazione politicamente necessaria, ma non semplice. L’ipotesi di sanzioni più pesanti potrebbe mettere in difficoltà la solidarietà fra occidentali perché è noto che sanzioni più pesanti avrebbero effetti asimmetrici e differenziati fra americani ed europei e fra gli stessi europei. Non è un mistero che il rapporto di interdipendenza delle rispettive economie con l’economia russa è molto maggiore per gli europei. Così come non è un mistero che alcuni europei dipendono molto di più di altri dalle forniture di gas dalla Russia.

Infine, va segnalato che l’Italia si è mossa finora correttamente in questa vicenda in piena sintonia con gli alleati della Nato e con i partners della Ue, malgrado le note differenze di sensibilità sul tema dei rapporti con la Russia fra i partititi della maggioranza. Ha ribadito con coerenza la necessità di coniugare, nei confronti della Russia, il doppio binario della fermezza e della disponibilità al dialogo. E ha manifestato fin dall’inizio disponibilità a aderire ad un pacchetto di sanzioni contro la Russia.

Certo, il governo non ha brillato per protagonismo in questa circostanza. Il Presidente del Consiglio non si è esposto molto preferendo lasciare spazio ai Ministri Di Maio e Guerini. E ha di fatto delegato a Macron e a Scholz il compito di rappresentare l’Europa nell’interlocuzione con Putin. Non sappiamo se si sia trattato di una scelta deliberata mirata ad evitare una cacofonia di voci europee. O di una scelta imposta dalle difficoltà di tenere unita la maggioranza sul tema del rapporto con la Russia. Resta comunque la sensazione che l’Italia avrebbe potuto assumere un ruolo più visibile nella gestione di questa emergenza. Ma la crisi non si esaurirà nei prossimi giorni. Ci sarà tempo per recuperare un maggiore protagonismo.

Foto di copertina EPA/THIBAULT CAMUS

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